Dell’inadeguatezza del linguaggio mediatico nel trattare il tema delle migrazioni si è detto e scritto molto. Tante le voci dissonanti rispetto al mainstream che vede dominare la ristrettezza di vedute di chi ancora sbandiera la “crisi” dei migranti oppure di chi urla il termine “clandestino”, dichiarando così, implicitamente, un punto di vista xenofobo, intollerante, inutilmente allarmista.
Se è importante dotarsi di un lessico adeguato ad affrontare un tema complesso e sfaccettato come quello che sposta masse di persone sempre più consistenti da un punto all’altro del globo, è necessario ricordare che, ugualmente, bisogna curarsi delle immagini. L’impatto visivo della fotografia che accompagna il testo, o spesso lo sostituisce, inglobandolo agli occhi voraci e veloci dei lettori e/o spettatori, ha una importanza che nessuno, ormai, sottovaluta.
Le chiamano “foto simbolo”: ritraggono scene altamente drammatiche, dalla forte risonanza emotiva, e finiscono per fagocitare situazioni sfumate, fatte di tanto dolore che si somma giorno dopo giorno, e che si osserva, invece, sul grande schermo o in prima pagina di giornale, così, riassunto in uno scatto rubato, che ha la pretesa di essere emblematico ma che la maggior parte delle volte non fa altro che far salire le lacrime agli occhi, l’indignazione al cuore, e scendere sotto le scarpe la dignità di chi non è disperato, perché ancora spera che, mettendosi in una barca senza remi, possa giungere al futuro tanto agognato.
Chi non ricorda il piccolo Aylan riverso sulla spiaggia ed il dibattito che ne è scaturito? “Aylan Kurdi giaceva senza vita a faccia in giù, tra la schiuma delle onde, nella sua t-shirt rossa e nei suoi pantaloncini blu scuro, piegati all’altezza della vita. L’unica cosa che potevo fare era fare in modo che il suo grido fosse sentito da tutti”: lo ha affermato Nilufer Demir, la fotoreporter che ha reso il corpicino senza vita del bimbo di soli tre anni, simbolo di un popolo che annega, tra lo sciabordio del mare che incontra la spiaggia di Bodrum, in Turchia. E la “foto della speranza”, come è stata definita, che ha vinto al World Press Photo 2016? Il freelance australiano Warren Richardson ha ritratto, in un suggestivo bianco e nero, un uomo che passa un bimbo attraverso una recinzione di filo spinato che separa Serbia ed Ungheria. Il titolo della foto: “Speranza per una nuova vita”. Ultimo, in ordine di tempo, il fermo immagine girato da Christian Buettner per la tv Eikon Norddi in cui si vede Martin, volontario di Sea Watch, organizzazione umanitaria tedesca, cullare un bambino gonfio d’acqua, simile ad una “bambola con le braccia distese”, secondo le parole del soccorritore.
L’intento è sempre lo stesso: diffondere queste immagini perché non si verifichi più nulla di simile e permettere il transito legale e sorvegliato di queste persone – non immigrati, non profughi, non clandestini: persone.
Eppure, l’effetto sortito non è quello sperato: tanta commozione, lacrime, promesse, rabbia e poi … silenzio. Si torna a morire. Quando non sono fotografati, i bambini continuano a perdere la vita, e così le donne, e gli anziani, e ugualmente gli uomini. Non c’è bisogno di corpi esanimi per ricordarci che fuggire dalle guerre per una vita migliore è un sacrosanto diritto, oltre che dovere, di chi vuole preservare sé e la propria famiglia. Oppure no?