La Costituzione si sa non è intoccabile. Ma, come appare evidente, l’opportunità o meno di cambiarla dipende dalle logiche sottese alle novità che si propongono. “La Costituzione va cambiata, è troppo vecchia, ormai non è al passo coi tempi!”, affermano con forza gli inventori di un’altra costituzione e, con loro, i sostenitori del “SI”.
Tuttavia, bisognerebbe innanzitutto considerare la “qualità” del tempo a cui rapportare questo cambiamento. Se fosse stato quello del Ventennio fascista, per dire un’assurdità, quale volto credete abbia potuto assumere una fantomatica carta costituzionale? Certamente sarebbe stata “al passo coi tempi”, ma è altrettanto certo che, un ipotetico testo, sarebbe stato ad immagine e somiglianza di un regime dittatoriale (ed infatti, della costituzione non se ne sentiva alcun bisogno). Un’assurdità, certo! Ma è per affermare che non necessariamente l’attualizzazione ad un dato contesto politico-sociale rappresenta, di per sé, la migliore scelta istituzionale che poteva essere fatta.
Se consideriamo il tempo attuale che le politiche partitiche, tanto nazionali quanto europee ed internazionali, ci stanno offrendo, è forse possibile affermare, con sufficiente serenità, che non si tratta precisamente di un’epoca autenticamente democratica, in cui vengono tutelati i diritti sociali, oltre ogni ragion di stato. Così, se è proprio al passo coi tempi che la nostra Costituzione deve andare, forse abbiamo scelto l’epoca peggiore per mettere mano, o meglio per mano-mettere, un baluardo necessario, l’ultimo che ci rimane nel nostro sistema nazionale, posto a garanzia dei diritti fondamentali di tutti i cittadini. In un spazio sociale europeo, caratterizzato da oligarchie economico-finanziarie e da un “neoliberismo selvaggio”, che ha invertito il rapporto tra politica, economia e finanza, questa Costituzione repubblicana resta l’unico vero argine allo straripamento di un potere che da tempo ha abdicato alla cura degli interessi collettivi.
In effetti, è proprio per questo che nasce la Carta Fondamentale del ‘48, e cioè per operare un saggio bilanciamento, divenendo così, il potere costituente, una limitazione di se stesso e non un suo amplificatore, come senz’altro accadrebbe se venisse approvata la “revisione” cosiddetta Renzi – Boschi, se sol si pensi che, tra le modifiche proposte, vi è un accrescimento enorme di poteri governativi ai danni del parlamento (si pensi alle nuove norme sull’elezione e sulle competenze del presidente della repubblica o sulla nomina dei giudici della Corte costituzionale, che “in combinato disposto” con la “nuova” legge elettorale garantirebbero un monopolio indiscusso dell’esecutivo).
E allora, forse, più che di attualizzazione dovremmo parlare di attuazione della Costituzione. È chiaro che non siamo nel tempo dei costituenti, ma ciò vale anche per altre esperienze costituzionali, eppure queste tengono ancora. Ciò deve essere riconsiderato è, più che altro, il rapporto tra Costituzione repubblicana, interpretazione e legislazione ordinaria. Non solo “l’elasticità” delle interpretazioni costituzionalmente orientate, ma oltretutto una produzione legislativa ordinaria “qualitativamente costituzionale” (Pio La Torre già negli anni ‘80 parlava di una politica “che dia ordine ai fatti economici, che organizzi e programmi lo sviluppo”), garantirebbero quell’esigenza di “attualità” della Costituzione che in tanti reclamano.
Ciò che è contestabile non è l’idea astratta di riforma, quanto la qualità politico ed istituzionale di chi la propone e di ciò che propone (in realtà si tratta di un’altra costituzione se sol si pensi allo stravolgimento della Parte II della Carta Fondamentale, ben il 55% di questa, infatti, viene modificata). Il che non è mero giudizio politico-partitico, ma è evidente l’insufficienza programmatica dell’attuale classe “dirigente”. Coloro che avanzano queste “riforme” costituzionali (come è accaduto negli anni ’80 e ’90 e poi nel 2005) sono gli stessi che da tempo hanno rinunciato ad occuparsi dell’attuazione della Costituzione, curando solo una sovrabbondante produzione di leggi sterili.
Il reale problema non è rappresentato dalla doppia lettura dei disegni di legge, che rappresenta un sistema di garanzia della democrazia, ma dalle scelte politiche irresponsabili dei partiti che con quei meccanismi di legalità democratica non ci vogliono avere a che fare. E che cosa cambierebbe con la riforma? Di certo non si annullerebbero le divergenze politiche, che rappresentano il presupposto di una democrazia pluralista, ma le si metterebbero a tacere, attraverso il rafforzamento della maggioranza governativa ed attraverso meccanismi legislativi perversi, (se sol si pensi al nuovo art. 70 della Costituzione che introduce innumerevoli e confusi procedimenti legislativi, imponendo comunque la partecipazione necessaria di un Senato, però, non più elettivo).
Sulla governabilità, qualcuno ha sottolineato come cinquant’anni di Democrazia Cristiana e venti di berlusconismo confermano quanto questa sia stabile e quanto poco rassicurabile sarebbe un allentamento delle garanzie costituzionali che, fin’ora, hanno resistito a fronte delle inaudite violazioni subite. La nostra Costituzione Repubblicana, allora, funziona ancora benissimo, beninteso, se non la si guardi nell’ottica di poteri intolleranti che di essa vogliono liberarsi.