È questo il primo di un ciclo di articoli teso ad analizzare i principali indipendentismi sul piano internazionale, in special modo europe, individuandone cause remote e contingenti, obiettivi e modalità di persecuzione.
Alla luce degli eventi attualmente in corso in Spagna, è doveroso iniziare la riflessione a partire dalla questione iberica. La situazione è ormai giunta all’apice della crisi. Nella giornata del 27 ottobre il Parlamento catalano ha dichiarato in maniera unilaterale l’indipendenza della Catalogna. Dopo poche ore, il primo ministro spagnolo Rajoy ha annunciato il commissariamento della Catalogna – destinato a durare fino a che non sarà ripristinata la legalità nella regione – in virtù dell’articolo 155 della Costituzione spagnola, così come approvato dal Senato spagnolo. Il governo centrale ha rimosso il presidente catalano Puigdemont e tutti i consiglieri, il direttore generale della polizia autonoma e il segretario generale dell’interno; una lunga lista di uffici sono stati chiusi, tra cui le rappresentanze all’estero della Catalogna. Ad assumere le competenze del presidente della Catalogna è la vicepremier Soraya Saenz de Santamaria fino a nuove elezioni anticipate, indette per il 21 dicembre. Tale condizione è del tutto nuova per la Spagna, dal momento che l’articolo 155 non era mai stato applicato finora, ed è impossibile prevedere l’evoluzione.
Nel frattempo le strade di Barcellona e Madrid sono attraversate da cortei contrapposti, indipendentisti e unionisti.
Ma come si è arrivati ad un contrasto così forte?
LE ORGINI STORICHE – Le radici dell’indipendentismo catalano sono piuttosto remote e risalgono infatti al Medioevo, quando all’interno dell’Impero Carolingio si iniziò ad instaurare una cultura catalana nella contea corrispondente all’attuale Catalogna. Sull’entità dell’autonomia e della sovranità sperimentate in tal senso ci sono considerazioni discordanti da parte degli storici: per alcuni si tratta di una prima forma di indipendenza catalana, per altri invece la sovranità sperimentata dalle contee carolingie non è assimilabile neanche ad uno stadio embrionale del concetto contemporaneo di indipendenza. Ad ogni modo, tale assetto permase fino all’11 settembre 1714, quando nel corso della guerra di secessione spagnola i Borboni sconfissero le truppe catalane e imposero un modello di Stato centrista. Il fatto che l’11 settembre si celebri in Catalogna la Diada Nacional de Catalunya e che al minuto 17.14 delle partite di calcio numerosi tifosi del Barcellona intonino cori a favore dell’indipendenza catalana sono esempi emblematici di come l’indipendentismo catalano, al di là di qualsiasi considerazione in merito, sia un sentimento antico e radicato.
GLI ANNI RECENTI – La Catalogna, del resto, ha una sua lingua, il catalano, una sua bandiera ed un suo inno. L’indipendentismo catalano è dunque una questione storica e culturale. Ma anche – e ad oggi soprattutto – economica. Il sentimento indipendentista in Catalogna è cresciuto notevolmente solo nell’ultimo decennio, quando la crisi economica ha raggiunto l’Europa e con essa la Spagna. I favorevoli all’indipendenza infatti, secondo i sondaggi effettuati dal Centro de Estudios de Opinión, sono quasi raddoppiati dal 2007 ad oggi. Una delle maggiori rivendicazioni della Catalogna è appunto la possibilità di gestire autonomamente le proprie risorse economiche, senza vincoli dettati dal governo centrale; quest’aspettativa sarebbe realizzata se la Catalogna diventasse uno Stato indipendente, ma potrebbe esserlo anche ricorrendo ad un compromesso di tipo federale, che pure è auspicato da una discreta parte di catalani. Dal 2010 al 2015 si sono avuti in Spagna – e in particolare in Catalogna più che in ogni altra regione spagnola – forti tagli al sistema di welfare. Ciò ha comportato un’ondata di proteste in tutto il Paese, a cui è seguito il dilagare di un fenomeno tipico dei periodi di crisi sociale ed economica: il nazionalismo. Se la Catalogna ha identificato il governo di Madrid come capro espiatorio facendo leva sul sentimento indipendentista, la Spagna è ricorsa all’espediente del patriottismo. Nel 2010 il Tribunale costituzionale spagnolo ha dichiarato incostituzionali diversi articoli del nuovo statuto riguardo l’autonomia catalana, che era stato approvato nel 2006, tra cui quello che definiva la Catalogna una nazione. Tale decisione sfociò in una manifestazione ampiamente partecipata a Barcellona: Som una nació, nosaltres decidim (Siamo una nazione, e vogliamo decidere). L’iniziativa fu appoggiata da tutti i partiti catalani, ma non sortì alcun effetto. Lo statuto del 2006 si rifaceva allo statuto dell’autonomia catalana del 1979, approvato quattro anni dopo la morte del dittatore nazionalista Francisco Franco. Il suo regime autoritario promosse un forte anti-catalanismo. Qualsiasi simbolo relativo alla Catalogna fu soppresso, la lingua catalana vietata. Precedentemente, durante la dittatura di Primo de Rivera, iniziata nel 1922, la cultura catalana non era stata meno osteggiata. È anche da questo lungo periodo che derivano gran parte delle fratture sociopolitiche che hanno portato all’intensificarsi dell’indipendentismo catalano. Un intensificarsi che, negli ultimi decenni, si è palesato già più volte. Nel 2012 il Parlamento catalano approvò una risoluzione tesa a convocare un referendum circa l’autodeterminazione della Catalogna. L’allora Presidente della Catalogna, Artur Mas – attualmente segretario del partito di centrodestra Convergència Democràtica de Catalunya – riuscì a convocare dopo svariati negoziati con gli altri partiti un referendum consultivo fissato per il 9 novembre 2014. Il referendum si tenne nonostante il Tribunale costituzionale spagnolo, interpellato dal governo di Madrid, avesse bloccato l’operazione sospendendo la legge del Parlamento catalano che avrebbe consentito il voto. Il 36% degli aventi diritto al voto si recò alle urne, di cui l’80% favorevole all’indipendenza. Data la posizione del Tribunale costituzionale, il referendum ebbe un valore meramente simbolico. Nel frattempo, Mas aveva perso l’appoggio del Parlamento e decise di indire elezioni anticipate. A vincere fu Junts pel Sì (Uniti per il Si), una nuova coalizione elettorale che faceva dell’indipendenza catalana il cardine del suo progetto politico e che includeva partiti di centrodestra, centrosinistra e sinistra.
LA CRISI ISTITUZIONALE – Gli attuali contrasti tra il governo catalano e quello di Madrid sono iniziati a partire dallo scorso 6 settembre, quando il Parlamento della Catalogna ha approvato la Ley del referéndum de autodeterminación vinculante sobre la independencia de Cataluña, che sancisce appunto che le autorità catalane dichiarino unilateralmente l’indipendenza della Catalogna in caso di vittoria del Sì e che indicano invece nuove elezioni in caso di vittoria del No. A votare a favore della legge Junts pel Sì e Candidatura d’Unitat Popular-Crida Constituent (CUP-CC), espressione della sinistra indipendista catalana; ad astenersi Catalunya Sí que es Pot (CSQP), coalizione di sinistra, mentre a votare contro la legge sono stati gli schieramenti legati ai grandi partiti nazionali sia di destra che di sinistra, ovvero il Partido Popular, il Partido Socialista e Ciudadanos. All’indomani dell’approvazione della legge, questa è stata sospesa dal Tribunale costituzionale spagnolo e sono iniziate le operazioni di sequestro del materiale per il referendum, a cui sono seguite perquisizioni, sequestri e arresti fino ad arrivare alla dura repressione da parte della polizia nel giorno del referendum, lo scorso 10 ottobre. Il pugno di ferro di Rajoy, con ogni probabilità, andrà ad aggiungersi al lungo elenco di fattori moltiplicatori del sentimento indipendentista catalano. Di fatti, è quello che sta già avvenendo.
Nel 2017, in un’Europa democratica in cui il diritto al voto è ormai consolidato, non solo giuridicamente ma anche nella mente dei cittadini come principale mezzo diretto di espressione della volontà popolare, sarà difficile sradicare l’indignazione dell’opinione pubblica dinanzi alle immagini della polizia in assetto antisommossa che manganella semplici cittadini intenti a votare, a prescindere dalla legittimità o illegittimità di tale voto. È interessante sottolineare, tra l’altro, che non tutti i votanti erano a favore dell’indipendenza e che addirittura tra le schede elettorali sono state trovate alcune annullate con scritte che auspicavano un’alternativa diversa, un confronto tra le parti. Il referendum ha visto la partecipazione del 43% degli aventi diritto, di cui il 92% favorevoli all’indipendenza. Esso è stato indetto senza l’autorizzazione del governo centrale, dunque è logico che non venga considerato valido da parte della Spagna. Tuttavia, un risultato tale dovrebbe quantomeno far scaturire da parte del governo la consapevolezza circa la necessità di avviare delle trattative al fine di individuare una soluzione che sia frutto di un serio confronto politico, teso ad analizzare esigenze e rivendicazioni di entrambe le parti.
UNA LETTURA COMPLESSA – È evidente che la Catalogna rappresenta un caso a sé stante, in cui l’oggettiva identità culturale, fattori storici e un’intransigenza che a fasi alterne si è palesata da parte di Madrid nel non riconoscerne a pieno l’autonomia si fondono a pretese diverse, di natura economica, che traggono nutrimento da momenti di crisi e di malcontento. Il governo di Madrid, come testimoniano gli avvenimenti, ha conservato un atteggiamento autoritario nei confronti delle Comunità spagnole, non solo della Catalogna. Il braccio di ferro tra Madrid e Barcellona, per come si è sviluppato, non ha assunto i contorni di una sfida tra destra e sinistra; basti pensare alla varietà delle appartenenze politiche delle forze che si sono schierate sia a favore che contro i processi politici di cui sopra. Allo stesso tempo, date le circostanze politiche in cui l’indipendentismo catalano si è rinvigorito e le condizioni materiali che vedono la Catalogna – seppur nel mirino di una crisi economica che coinvolge quasi l’intero Occidente – una delle più floride regioni spagnole, la dicotomia oppressi/oppressori non regge. La crisi spagnola offre diversi spunti di riflessione circa la tenuta degli Stati-nazione in questo momento storico: se da un lato la presenza all’interno degli organismi internazionali è necessaria per ottenere potere e rilevanza e anche solo per far valere gli interessi del proprio Stato sul piano internazionale, i nazionalismi sono in evidente rimonta e creano frammentazione non solo all’interno di tali enti sovranazionali – basti pensare alla Brexit – ma anche all’interno degli stessi Stati, come è appunto il caso della Catalogna. D’altra parte, i limiti e le contraddizioni degli enti sovranazionali stanno emergendo in tutta la loro rilevanza: ad oggi raramente essi sono stati in grado di attuare soluzioni concrete e adeguate nell’ambito di conflitti, crisi economica, problemi sociopolitici, ma anzi spesso hanno finito per incrementare quegli stessi meccanismi che determinano tali processi. È importante sottolineare che fenomeni quali i nazionalismi e lo sfaldamento degli organismi internazionali, riprodotti in larga scala, avrebbero come effetto il ritorno ad un assetto multipolare, costituito da tante potenze separate l’una dall’altra, eventualità certamente non auspicabile per la sicurezza all’interno del sistema internazionale, né per la trasversalità delle questioni politiche protagoniste del nostro tempo, che valicano appunto i confini nazionali.