Da qualche anno siamo oggetto di una campagna di disinformazione e di demagogia “sovranista” secondo cui la non ben identificata “Europa” sarebbe l’origine dei mali di Italia. Niente di più falso, e per diverse ragioni. A chiarire la realtà delle cose sono anche i numeri, tristi e incontestabili, relativi ai fondi strutturali. Secondo gli ultimi dati disponibili, certificati, diffusi poche settimane fa alla vigilia delle elezioni europee, su 75,2 miliardi di risorse destinate all’Italia ne abbiamo utilizzate 17,3. Circa il 23% del ciclo 2014-2020, ormai prossimo alla scadenza. Ebbene sì, l’Italia, Paese fondatore dell’allora Comunità europea, oggi Unione, non ha ancora imparato a spendere bene quel che incassa, rispettando cioè i tempi indicati dai progetti finanziati e perseguendo obiettivi strategici.
E i fatti non finiscono qui. L’Italia risulta essere il secondo beneficiario in Ue, ma è agli ultimi posti per soldi utilizzati. Il solo Paese che nell’ultimo settennato di programmazione ha ricevuto più soldi rispetto a noi è la Polonia. Guardando al parametro dell’intensità dell’aiuto, misurato in euro procapite, e mettendo a confronto il Mezzogiorno di Italia, che rientra nelle aree meno sviluppate, con la Polonia, un cittadino polacco ha ricevuto figurativamente 239 all’anno, contro i 200 di un cittadino di Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia. Poi, però, emerge l’abisso delle differenze: la Polonia è cresciuta del 5,1% nel 2018 e del 4,2% nel 2019; nel Sud Italia la crescita non ha superato lo 0,6% nel 2018 e sarà ancora più bassa quest’anno. In sintesi, la Polonia, anche grazie ai fondi europei, cresce ad un ritmo 8-10 volte maggiore di quello del Mezzogiorno. C’è da chiedersi: qualche responsabilità è forse legata anche al nostro sistema produttivo e amministrativo? La risposta è sì.
Le pubbliche amministrazioni, dalle regioni ai singoli Comuni, non solo sono caratterizzate da procedure lente e tutt’altro a garanzia della qualità e del buon esito dei lavori, ma spesso non dispongono di risorse professionali adeguate in numero e per competenze. Intercettare e gestire correttamente fondi europei è oggi una necessità di sopravvivenza per gli Enti locali, che fa la differenza tra ordinaria e affannosa amministrazione e programmazione. Ma la storia si ripete ogni settennato di programmazione europea, e quello che sta per concludersi nel 2020 non farà eccezione: i progetti, pur approvati, vivono sulle carte e per anni, con l’avvicinarsi delle scadenze si prova a correre, consci del rischio di dover restituire risorse preziose. E non sempre si riesce a raggiungere il traguardo in modo dignitoso. Emblematico è il disastro della linea 6 della metropolitana di Napoli. E pensare che il 70% degli investimenti pubblici annui dell’Italia è fatto anche grazie ai fondi dell’Unione Europea. E senza questi fondi il Sud, che ne beneficia all’85%, sprofonderebbe. Non solo a livello di infrastrutture (strade, ponti, scuole, sanità, metropolitane, fibra ottica, ciclovie, bus ecologici), ma anche per politiche sociali (assistenza agli anziani, lotta al dissesto idrogeologico, orientamento al lavoro, riconversione energetica degli edifici pubblici). Ma tutto si muove a macchia di leopardo e in modo troppo lento.
A livello europeo parliamo di qualcosa di imponente. L’attuale periodo di programmazione 2014-2020 nel bilancio Ue vale 454 miliardi di euro (638 aggiungendo il contributo degli Stati). Il Parlamento europeo appena eletto nelle scorse elezioni dovrà lavorare al piano finanziario 2021-2027, alle politiche di coesione, alla politica agricola e della pesca, a quelle di recupero ambientale, innovazione e rigenerazione urbana. Vedremo che ne sarà dell’Italia. Che oltre a correre il rischio di un isolamento politico dalle Istituzioni europee ad oggi non ha nemmeno un Ministro per le Politiche europee, visto che il Ministero è diretto ad interim dal Premier Conte dopo le dimissioni di Savona. Intanto, la commissione europea uscente, per mantenere immutate le risorse complessive rispetto agli anni scorsi ha ipotizzato alcune “tasse intelligenti”, come la webtax sui colossi del tech, o quelle “verdi” sulle emissioni e un’altra sulla plastica. Temi importanti, di cui però nell’ultima campagna elettorale non si è parlato.
Una visione politica corta e provinciale che si sposa “benissimo” (ma con effetti deleteri per le comunità) con l’impreparazione tecnica, la scarsa lungimiranza o il piegarsi a logiche gestionali che appesantiscono i processi operatici, tutti fenomeni radicati negli uffici preposti delle amministrazioni locali.
Scritto da Dario Chiocca
Classe '78, è tra i fondatori de L'Iniziativa, di cui è presidente. Puteolano, è cresciuto nel quartiere di Monterusciello, dove risiede.
Laureato in Giurisprudenza, impegnato da sempre sulle questioni sociali, anche nei movimenti studenteschi e nelle organizzazioni sindacali, dal 2010 è avvocato presso il Foro di Napoli e svolge la sua attività professionale nel campo nel diritto civile e del lavoro. In ambito di normativa del lavoro, si occupa inoltre di formazione.
Da qualche anno siamo oggetto di una campagna di disinformazione e di demagogia “sovranista” secondo cui la non ben identificata “Europa” sarebbe l’origine dei mali di Italia. Niente di più falso, e per diverse ragioni. A chiarire la realtà delle cose sono anche i numeri, tristi e incontestabili, relativi ai fondi strutturali. Secondo gli ultimi dati disponibili, certificati, diffusi poche settimane fa alla vigilia delle elezioni europee, su 75,2 miliardi di risorse destinate all’Italia ne abbiamo utilizzate 17,3. Circa il 23% del ciclo 2014-2020, ormai prossimo alla scadenza. Ebbene sì, l’Italia, Paese fondatore dell’allora Comunità europea, oggi Unione, non ha ancora imparato a spendere bene quel che incassa, rispettando cioè i tempi indicati dai progetti finanziati e perseguendo obiettivi strategici.
E i fatti non finiscono qui. L’Italia risulta essere il secondo beneficiario in Ue, ma è agli ultimi posti per soldi utilizzati. Il solo Paese che nell’ultimo settennato di programmazione ha ricevuto più soldi rispetto a noi è la Polonia. Guardando al parametro dell’intensità dell’aiuto, misurato in euro procapite, e mettendo a confronto il Mezzogiorno di Italia, che rientra nelle aree meno sviluppate, con la Polonia, un cittadino polacco ha ricevuto figurativamente 239 all’anno, contro i 200 di un cittadino di Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia. Poi, però, emerge l’abisso delle differenze: la Polonia è cresciuta del 5,1% nel 2018 e del 4,2% nel 2019; nel Sud Italia la crescita non ha superato lo 0,6% nel 2018 e sarà ancora più bassa quest’anno. In sintesi, la Polonia, anche grazie ai fondi europei, cresce ad un ritmo 8-10 volte maggiore di quello del Mezzogiorno. C’è da chiedersi: qualche responsabilità è forse legata anche al nostro sistema produttivo e amministrativo? La risposta è sì.
Le pubbliche amministrazioni, dalle regioni ai singoli Comuni, non solo sono caratterizzate da procedure lente e tutt’altro a garanzia della qualità e del buon esito dei lavori, ma spesso non dispongono di risorse professionali adeguate in numero e per competenze. Intercettare e gestire correttamente fondi europei è oggi una necessità di sopravvivenza per gli Enti locali, che fa la differenza tra ordinaria e affannosa amministrazione e programmazione. Ma la storia si ripete ogni settennato di programmazione europea, e quello che sta per concludersi nel 2020 non farà eccezione: i progetti, pur approvati, vivono sulle carte e per anni, con l’avvicinarsi delle scadenze si prova a correre, consci del rischio di dover restituire risorse preziose. E non sempre si riesce a raggiungere il traguardo in modo dignitoso. Emblematico è il disastro della linea 6 della metropolitana di Napoli. E pensare che il 70% degli investimenti pubblici annui dell’Italia è fatto anche grazie ai fondi dell’Unione Europea. E senza questi fondi il Sud, che ne beneficia all’85%, sprofonderebbe. Non solo a livello di infrastrutture (strade, ponti, scuole, sanità, metropolitane, fibra ottica, ciclovie, bus ecologici), ma anche per politiche sociali (assistenza agli anziani, lotta al dissesto idrogeologico, orientamento al lavoro, riconversione energetica degli edifici pubblici). Ma tutto si muove a macchia di leopardo e in modo troppo lento.