Negli ultimi decenni la formazione in Italia ha subito tante modifiche, nell’ambito di svariate riforme susseguitesi nel tempo, senza però che siano stati superati i problemi strutturali del mondo accademico. Negli ultimi vent’anni sono state infatti una decina le “riforme” in tal senso: Berlinguer, Moratti, Gelmini, Giannini, per citarne le più conosciute, che prendono il nome dai Ministri di turno. Tuttavia, sebbene ogni intervento di legge abbia apportato modifiche per certi aspetti in contrasto con quelli precedenti, queste “riforme” tracciano una linea di continuità, collocandosi in un medesimo percorso iniziato già con il Processo di Bologna del 1999. La direzione a cui si è guardato ogni qualvolta si è intervenuto nel mondo della formazione è stata la medesima, ovvero l’adeguamento dei luoghi della formazione alle logiche di mercato che si sono gradualmente affermate nel contesto nazionale e internazionale.
IL FALLIMENTO DEL 3 + 2 E DEL SISTEMA “FORMAZIONE – LAVORO” – “Merito” e “competitività” sono state, e sono tuttora, le parole d’ordine della trasformazione di scuola e università: trasformazione dunque perfettamente coerente con il tipo di narrazione e con il modello di sviluppo attuali. Come detto sopra, le radici dei cambiamenti degli ultimi dieci anni possono essere fatte risalire al Processo di Bologna, che aveva come obiettivo il raggiungimento entro il 2010 di un Sistema dell’Istruzione Superiore uniforme europeo. Per questo motivo, se da un lato tali politiche hanno agevolato la mobilità degli studenti europei ed incrementato la spendibilità del proprio curriculum in tutta l’Unione Europea attraverso una maggiore equiparazione dei percorsi di studio ed attraverso l’istituzione dei crediti formativi universitari (CFU), dall’altro hanno comportato un generale svilimento della formazione in favore dell’efficienza e della produttività. La riforma del “3 + 2” – varata dal Ministro Zecchino nel 1999 ed entrata in vigore di fatto circa 3 anni dopo – si colloca perfettamente in questa logica: da un lato offre allo studente la possibilità di “spezzare” il proprio percorso accademico, diversificandolo in termini territoriali e in parte in termini disciplinari, dal momento che è la laurea magistrale a possedere una connotazione professionalizzante e specializzante, e non quella triennale; dall’altro, tuttavia, è ormai noto che il prezzo di tali cambiamenti è stato un abbassamento della qualità dell’istruzione in termini di contenuti, dal momento che la riduzione degli stessi ha come effetto l’inadeguatezza del percorso triennale sia in termini formativi che in termini di accesso al mercato del lavoro, così come il percorso magistrale risulta spesso non sufficiente per un reale approfondimento. Oltretutto, i tempi previsti per concludere i percorsi accademici solo raramente corrispondono ai tempi effettivi di conseguimento dei titoli di studio; a tal proposito è opportuno segnalare alcuni fattori, tra cui la difficoltà vissuta da numerose Università italiane, specie nel Mezzogiorno, in termini di organizzazione della didattica e degli appelli d’esame, spesso conseguenza della carenza di strutture nelle quali organizzare tali attività, mentre sul piano sistemico bisogna considerare l’ambiguità del sistema dei CFU: teoricamente, 1 CFU corrisponde a venticinque ore di lavoro che includono lezioni frontali e studio autonomo; tuttavia, un simile sistema di ripartizione, che sarebbe adatto ad illustrare il funzionamento di una macchina o di un processo automatizzato, risulta evidentemente inadeguato in riferimento a tempi di insegnamento e di apprendimento che sono personali ed influenzati da contingenze esterne di natura economica, sociale, psicologica. A ciò si aggiunge il fatto che spesso l’assegnazione dei CFU ai rispettivi esami è relativamente arbitraria e tiene conto del numero legale di CFU da distribuire tra discipline caratterizzanti e discipline affini e integrative, più che della reale mole di un esame. Nell’analisi della situazione non ci si può esimere dal considerare un altro fattore: la condizione che vive ad oggi il mercato del lavoro. Se il “3+2” si proponeva di incrementare il numero di laureati e favorire l’occupazione, ad oggi appare evidente che tali obiettivi non sono affatto stati raggiunti: secondo l’Eurostat, l’Italia da anni si colloca agli ultimi posti in Europa per tasso di laureati, mentre il tasso di disoccupazione giovanile è tra i più alti ed è tristemente noto il fenomeno della cosiddetta “fuga di cervelli”.
L’EMERGENZA RIGUARDA IL “DIRITTO ALLO STUDIO” – Pericolosamente alto è anche il tasso di dispersione scolastica e di abbandono degli studi universitari. Tale dato offre un ulteriore spunto estremamente importante: la situazione che vive il diritto allo studio nel nostro Paese e, in particolare, nella nostra Regione e nel Sud. Ad oggi gli Atenei vivono enormi difficoltà in termini strutturali: gli spazi sono ben lontani dal poter essere considerati vivibili, spesso si è costretti a seguire i corsi in aule sovraffollate, con sedie rotte, intonaci danneggiati; la maggior parte delle residenze universitarie si trova nelle medesime condizioni di disfunzionalità; l’erogazione delle borse di studio avviene con ritardi inaccettabili, spesso persino di anni; il servizio mensa è di fatti inesistente al centro storico, situazione a cui l’unico tentativo di sopperire ad oggi consiste in convenzioni con alcuni locali gastronomici; l’inefficienza dei trasporti rappresenta un serio problema in una città in cui la maggior parte degli studenti sono pendolari. In riferimento a quest’ultimo aspetto, è opportuno ricordare che un avanzamento in termini di diritto allo studio è stato prodotto attraverso l’abbonamento gratuito per gli studenti istituito dalla Regione Campania, che garantisce la gratuità del tragitto da casa a scuola/università fino ai 26 anni di età per tutti coloro che abbiano un Isee Ordinario non superiore a 35.000 €; tuttavia, tale misura sarebbe indice di un’idea maggiormente sistemica di diritto allo studio se il tragitto garantito non fosse così ristretto e se fosse esteso anche, ad esempio, ai siti presso i quali gli studenti svolgono le attività di tirocinio curriculare, a musei, cinema, teatri.
SCARSI FINANZIAMENTI PUBBLICI E TASSE TROPPO ALTE – La questione del (de)finanziamento dell’istruzione in Italia è problematica quanto paradossale: secondo l’Eurostat, l’Italia è tra i Paesi europei ad investire meno in istruzione, eppure non solo offre scarsi servizi agli studenti, ma è anche tra i Paesi in cui le tasse dell’Università pubblica sono tra le più elevate. Alla scarsità di risorse, finora, non si è mai provato a rimediare attraverso un piano di finanziamenti strutturali tesi ad un miglioramento generale ed una riduzione delle diseguaglianze tra Nord e Sud, bensì attraverso la meritocrazia e la retorica dell’eccellenza. I finanziamenti più ingenti sono infatti sistematicamente indirizzati verso i cosiddetti “poli d’eccellenza”, che finiscono per assumere i connotati di cattedrali nel deserto. In tale modus operandi prettamente aziendale si colloca l’ANVUR (Agenzia Nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca), che valuta gli Atenei in base a criteri che non tengono conto della diversificazione territoriale e delle differenti condizioni sociali e materiali degli Atenei dovute alla Regione e alla città in cui si trovano, né è premiata l’originalità dell’offerta formativa: il sistema di valutazione si basa su criteri standardizzati che mal di adattano ad un contesto eterogeneo come quello italiano e che sono, peraltro, pensati ad hoc per le discipline scientifiche, penalizzando il settore umanistico e delle scienze sociali. Ne consegue che ancora una volta, anziché attuare delle politiche tese ad un miglioramento strutturale e generale, gli Atenei che vivono maggiori difficoltà vedono ulteriormente ridotte le possibilità di ottenere i finanziamenti di cui avrebbero bisogno, acuendo in tal modo diseguaglianze già profonde; nei casi considerati più gravi, l’ANVUR può finanche optare per la soppressione di una sede o di un corso di studi. Non a caso, numerosi Atenei rispondono al definanziamento ponendo barriere all’accesso in termini meritocratici – che si aggiungono alle barriere di tipo economico – attraverso corsi di laurea a numero chiuso e penalizzando gli studenti fuori corso; i corsi di laurea afferenti al settore dei beni culturali e delle discipline umanistiche sono tra i più definanziati, in linea con la narrazione secondo cui “con la cultura non si mangia” (eppure la filiera culturale ad oggi, nonostante il disimpegno statale in termini di strategie politiche e investimenti finanziari, rappresenta il 17% del PIL).
CRITICITA’ DI GESTIONE – Nell’ottica della riorganizzazione del settore pubblico in senso manageriale si colloca anche l’assetto degli organi collegiali e di governo degli Atenei: oltre alla riduzione del numero di componenti al loro interno, si è assistito ad una perdita di potere del Senato Accademico in favore del Consiglio di Amministrazione; in certi casi sono state avviate collaborazioni tesi a ricevere finanziamenti da enti esterni, riducendo potenzialmente l’autonomia e l’indipendenza dei luoghi della formazione da interessi privati.
QUAL E’ IL RUOLO DELL’UNIVERSITA’ NELLA SOCIETA’ DI OGGI ? – Risulta evidente che un modello competitivo e meritocratico che pervade i luoghi della formazione ne depotenzia le capacità di aggregazione del tessuto sociale, specie all’interno di una società definita “liquida”, di crisi dei corpi intermedi, in una fase già di per sé di disaffezione alla politica e di sfiducia generalizzata verso i processi sociopolitici bottom-up. Ad oggi sarebbe necessario che i luoghi della formazione, anziché subire le contraddizioni del momento storico che attraversiamo, svolgessero un ruolo di “attacco” e di resistenza, teso a contaminare in positivo l’ambiente esterno, a dispetto di modifiche che invece da decenni tendono ad assoggettare gli stessi allo status quo; tale azione non può avvenire, tuttavia, senza una previa coscientizzazione ed organizzazione di tutte le componenti della comunità accademica.