La nostra redazione ha incontrato lo scorso 10 ottobre, nell’ambito del V congresso di Nidil Napoli, Claudio Treves, segretario generale nazionale del sindacato Nidil e tra i maggiori esperti di mercato e di leggi sul lavoro nel mondo sindacale, per fare chiarezza su due temi all’ordine del giorno del dibattito politico in Italia: decreto dignità e reddito di cittadinanza. Ne sentiamo tanto parlare, ma nello specifico di cosa si tratta? Qual è il loro impatto a livello sociale, politico e economico? Ci aiuta a capirlo Claudio Treves.
RED – Lo scorso 7 agosto 2018 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge di conversione del c.d. decreto dignità. Ci può illustrare in cosa consiste e, soprattutto, quali sono i pro e i contro?
Treves – Argomento abbastanza complicato. Da una parte il “decreto dignità” risponde, almeno nelle intenzioni, a una battaglia che la Cgil ha condotto in splendida solitudine in questi anni, fino ad arrivare a coinvolgere la Commissione Europea, sul principio contenuto nel decreto Poletti del 2014, che cancellava per le assunzioni a tempo determinato l’obbligo, vigente fino ad allora, di giustificazione (in gergo cosiddetta causale). Per noi quella è stata una battaglia che non abbiamo mai abbandonato. Quindi da questo punto di vista, il fatto che un governo ripristini la causale nel ricorso ai rapporti non a tempo indeterminato non può che essere un elemento di giudizio positivo. Peccato che il modo con il quale questo decreto è stato scritto, e anche poi la legge di conversione, denota probabilmente delle contraddizioni nella coalizione di governo e anche una certa … chiamiamola “imperizia” (se non peggio) di chi ha scritto materialmente le norme.
RED – Dove emerge questa “imperizia”?
Treves – Ribadito che l’obbligo di causale reinserito è un fatto importante, questo decreto può essere definito non tanto “dignità”, quanto “colabrodo”, perché l’obbligo di causale viene previsto non come norma generale, ma come regola che entra in vigore solo al superamento del dodicesimo mese di durata del contratto a termine o del contratto di somministrazione, oppure qualora il contratto venga rinnovato, quindi quando se ne fa un altro con lo stesso datore di lavoro, anche se di durata complessivamente inferiore ai dodici mesi.
RED – Secondo lei in che modo ciò potrebbe influenzare i rapporti lavorativi tra datori e dipendenti?
Treves – Questo fatto, che apparentemente è “neutro”, in realtà produce un rischio che per noi è molto rilevante e di cui si vedono già ora i primi riscontri, e cioè che il sistema economico si concentri su rapporti di lavoro di durata inferiore a dodici mesi, non soggetti all’obbligo di causale e quindi difficilmente impugnabili dal lavoratore, e che una volta che il lavoratore sia giunto in prossimità di quel termine, lo si lasci semplicemente a casa e se ne prenda un altro. Per questo parlo di colabrodo, cioè di una norma che aveva l’ambizione di reintrodurre anche una gerarchia nei rapporti di lavoro, privilegiando i rapporti di lavoro a tempo indeterminato e che invece può produrre l’effetto opposto. Per giunta, accentuando un dramma che noi solleviamo da tempo, ovvero il fatto che l’occupazione cresce complessivamente, ma cresce solo attraverso rapporti di lavoro precari.
RED – Ci sono altri limiti nel “decreto dignità”, tali da poterlo definire “colabrodo”?
Treves – Possiamo citarne altri due. Un limite piuttosto rilevante è il ripristino dei voucher, ovverosia la forma più destrutturata di rapporto di lavoro e più utile a nascondere prestazioni irregolari. È nota la battaglia del sindacato Cgil contro i voucher, la raccolta di firme, il referendum che sembrava essere stato evitato perché il legislatore aveva tenuto conto della nostra azione, e poi in una notte, come “i ladri di Pisa”, la norma è stata sostanzialmente (con poche modifiche) ripristinata. Da un lato quindi imperizia tecnica, dall’altro contraddizioni interne. Se c’erano buone intenzioni, si sono abbastanza disperse. Un’ultima questione riguarda gli indennizzi in caso di licenziamento illegittimo. Anche qui, la forza politica che in campagna elettorale si era detta disponibile, anzi interessata a ripristinare l’articolo 18 (n.b. il diritto alla reintegra in caso di licenziamento illegittimo) forse ha avuto paura delle sue promesse, probabilmente perché non erano del tutto gradite all’alleato di governo, e se l’è cavata aumentando l’indennizzo in favore del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo. Per fortuna, sulla base di una causa promossa dalla Cgil, la Corte Costituzionale è intervenuta ripristinando un principio che il legislatore aveva cancellato, ossia la titolarità del giudice a stabilire l’entità del risarcimento a fronte del licenziamento illegittimo, perché ovviamente un conto è essere licenziati da una macelleria, un conto è essere licenziati da Auchan. Mentre l’indennizzo per una macelleria può essere di un certo tenore, se è un grande imprenditore che si comporta illegittimamente, il giudice ha ragione di aumentare il costo, così come se stiamo parlando di un ragazzo di trent’anni o di una madre singola con un bambino handicappato. Il legislatore precedentemente ha completamente cancellato questo tipo di valutazione, producendo un meccanismo di semplice corrispondenza matematica con l’anzianità del lavoratore o della lavoratrice in quel luogo di lavoro.
RED – Passiamo al secondo argomento che tiene banco in questi giorni: il reddito di cittadinanza. Innanzitutto cerchiamo di capire cos’è.
Intanto si comincia con un equivoco. Nella “letteratura” il reddito di cittadinanza è una erogazione economica a cui hanno diritto tutte le persone in vita al raggiungimento di una certa età, senza altra condizione che non la loro esistenza. Esiste in un solo paese al mondo che è lo stato americano dell’Alaska (!), che non è densamente popolato, ma grazie ai giacimenti petroliferi è uno degli stati più ricchi del mondo e con le royalties, con la tassazione che si ricava dall’estrazione del petrolio è nelle condizioni di garantire a tutti gli abitanti di quello stato un’erogazione di questo tipo.
Quindi, la prima cosa da dire è che quello di cui si discute oggi e che deriva da una proposta di legge del movimento 5 stelle non è un reddito di cittadinanza, è un intermezzo tra due provvedimenti che hanno dei nomi diversi. Da un lato abbiamo il “reddito di contrasto alla povertà” che prescinde dall’esistenza o meno di un rapporto di lavoro, ma riguarda la condizione economica del nucleo familiare che se è al disotto di una determinata soglia di povertà, ha diritto a un’erogazione. In questo senso la passata legislatura aveva lasciato in eredità alla successiva un embrione di reddito di contrasto alla povertà che si chiamava reddito di inclusione sociale, che al di là del finanziamento assolutamente insufficiente, aveva un elemento di grande interesse, cioè prevedeva che nella cosiddetta presa in carico, cioè nel fatto che il soggetto pubblico interloquisse con il cittadino richiedente, doveva essere valutata la situazione complessiva di quel nucleo familiare, quindi ad esempio la dispersione scolastica, la presenza di soggetti disabili o in difficoltà, l’assenza di lavoro o una condizione di lavoro irregolare, e tutti i soggetti pubblici che separatamente si occupano di queste cose, quindi Centro per l’impiego, l’ufficio scolastico regionale, l’ASL avrebbero dovuto dare vita a un operatore polifunzionale che fosse in grado di fare questa valutazione complessiva. Questo era un segnale molto importante di tentativo di un approccio complessivo al problema. Dall’altro lato, c’è un istituto che si chiama “reddito di ultima istanza“, che prova ad affrontare un’altra questione: cosa succede quando l’indennità di disoccupazione finisce? Nella Repubblica italiana la risposta è: se hai un comune che ha pensato a qualcosa, bene, altrimenti, finita la NASpI, campi d’aria. Quindi in Italia tale istituto non esiste.
Mettere insieme il reddito di contrasto e il reddito di ultima istanza richiede una certa intelligenza. La proposta, per quanto ne sappiamo, è una soluzione “rabberciata” perché dice: “780 euro a chi si iscrive ai centri dell’impiego”, rivolgendosi quindi ai disoccupati, poi ogni giorno ssi aggiungono, almeno a parole, nuovi condizionamenti per cui se non accetti dalla terza proposta in poi perdi il diritto, se non ti comporti “moralmente” ti mandiamo la finanza. Beh, ci sarebbe bisogno di un po’ di razionalità.
RED – Si potrebbe trovare, secondo lei, una soluzione alternativa e più efficace?
Treves – Bisognerebbe non buttare ciò che di buono c’era nella passata proposta di reddito di inclusione e allo stesso tempo dare un po’ di ascolto a chi, come la nostra organizzazione, propone il “reddito di garanzia e continuità”, che è uno strumento pensato per le tre fattispecie di cui parlavo prima, cioè per chi è arrivato a fine corsa degli ammortizzatori, per chi si affaccia al mondo del lavoro, quindi è uno strumento di indipendenza e autonomia per i giovani, e per chi inanella rapporti di lavoro precari e di breve durata, che non gli danno diritto ad accedere agli ammortizzatori, ma gli consentono una condizione di lavoratore povero. Ecco, se ci fosse interesse, questa sarebbe la strada più intelligente per fare i conti con queste problematiche, che sono reali. Dobbiamo affrontare in una società moderna la questione del reddito, ma dovremmo sempre privilegiare la possibilità che il reddito derivi da un rapporto di lavoro, un lavoro che sia dignitoso.