Enrico Berlinguer, il cui nome è rimbalzato, spesso strumentalmente anche nell’ultima campagna elettorale, è stato uno degli ultimi uomini politici apprezzati tra la gente sia da sostenitori che avversari. Tra pochi giorni ricorre il trentesimo anniversario della sua scomparsa. Il 7 giugno 1984, l’allora segretario del PCI si recò a Padova per tenere un comizio durante la campagna per le elezioni europee e fu colto da malore, mentre parlava. Riuscì a concludere il suo discorso, tra lo sgomento dei presenti, ma subito dopo entrò in coma per ictus celebrale. Morì quattro giorni dopo.
Berlinguer era a capo della più grande forza di opposizione in Italia, del partito comunista di massa più radicato nel popolo tra quelli occidentali. Nelle consultazioni che seguirono, gli italiani decretarono una sorta di riconoscimento postumo alla sua coerenza politica e rispettabilità umana, scrivendo ugualmente a centinaia di migliaia il suo nome sulla scheda e attribuendo il 33,3 per cento dei voti al Pci, affermandolo come primo partito, unica volta in Italia. Ed appare alquanto riduttiva la ricostruzione storica che spiega quel successo elettorale esclusivamente con l’elemento emotivo.
In un contesto completamente diverso, 30 anni dopo ci preme sottolineare alcuni aspetti della politica di Berlinguer, assolutamente attuali e motivo di riflessione nell’Italia di oggi.
Spesso ricordato dagli storici esclusivamente per il suo tentativo di “compromesso storico” (ricerca di collaborazione con il mondo cattolico rappresentato dalla Democrazia Cristiana, il partito che ha governato l’Italia per 50 anni), o per il suo distacco dall’Unione Sovietica e dai regimi dell’Est (esperienze rispetto alle quali prese atto “Dell’esaurimento della spinta propulsiva”), vengono sottovalutate le intuizioni che questo dirigente realizzò negli ultimi anni della sua vita, a partire dal 1980.
Schierandosi con gli operai della Fiat, in sciopero per 40 giorni contro il primo grande piano di licenziamenti voluto dalla famiglia Agnelli, denunciò che la ristrutturazione in corso delle grandi aziende avrebbe aperto la strada ad un mondo del lavoro con meno diritti e tutele, mietendo come vittime i più deboli. Si oppose al taglio della “scala mobile” (adeguamento automatico degli stipendi all’aumento della vita), deciso con un decreto legge dal governo del suo avversario Bettino Craxi, provvedimento che ha aperto la strada alla svalutazione del potere di acquisto reale dei ceti medi e bassi ed alla precarizzazione legalizzata.
Si batté per la pace, promotore di un fronte unitario con le forze dell’associazionismo e dei movimenti, con esponenti religiosi di base, contro l’installazione e la minaccia degli euromissili nucleari. Lo definirono un idealista, ma pochi anni dopo Gorbaciov e Bush senior firmavano i primi accordi per il loro smantellamento.
Parlò di “austerità” già nel 1977, da intendersi però in modo completamente diverso da oggi e distinguendola dal “rigore”, ovvero come organizzazione economica che evitasse gli sprechi energetici e il consumismo individuale esasperato, che “Produce non solo dissipazione di ricchezza e sfortune produttive, ma anche insoddisfazione ”, per indirizzare le risorse in campo sociale, anticipando in qualche modo l’idea di sviluppo sostenibile.
Fu strenuo oppositore della P2, la loggia massonica segreta che puntava ad un cambiamento antidemocratico dello Stato, ad un ridimensionamento del Parlamento e della Magistratura, che vedeva tra i suoi giovani iscritti anche l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
Ma la battaglia politica che più delle altre si dimostrò drammaticamente giusta, fu forse quella della “questione morale”. L’Italia repubblicana si era ormai sufficientemente caratterizzata per scandali e ruberie, per cui Berlinguer dichiarò: “La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci ladri, corrotti, concussioni in alte sfere politiche e dell’amministrazione, bisognava scovarli, denunciarli e mandarli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti [..] metodi che vanno semplicemente abbandonati e superati”. E ancora, guardando al futuro: “La questione morale è il centro del problema italiano. Quel che deve interessare veramente è la sorte del Paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude”. Dieci anni dopo queste parole, dilagò l’inchiesta “Mani pulite” e per la prima volta l’opinione pubblica avversò l’intera classe dirigente coinvolta nello scandalo “Tangentopoli”.
L’insieme di queste posizioni trovò l’ultima espressione politica nella proposta di “alternativa democratica”, formulata nel 1980, ben diversa dall’idea di una fisiologica “alternanza” tra schieramenti che cambiano le loro collocazioni al governo per non cambiare nulla o quasi nel Paese. Il PCI, in particolare dopo le elezioni del 1983, chiese la formazione di Governi con personalità scelte anche all’esterno dei partiti, vincolati ad un programma di riforme, che superassero pregiudiziali ideologiche e restituissero al Parlamento il ruolo del confronto pubblico. Una formula che non fu mai applicata, ma che rappresenta il primo timido tentativo di legare l’azione politica e di governo a cose da fare con contenuti ben precisi, e non all’occupazione fine a sé stessa del potere.
Le idee di Berlinguer non hanno trovato negli anni a venire degni continuatori nel panorama politico, ma chiunque voglia costruire una società diversa in Italia non può prescindere dal conoscerle, per elaborare ciò di cui ci sarebbe bisogno ancora oggi: un’alternativa.
L’ULTIMO COMIZIO DI ENRICO BERLINGUER, COLPITO DA ICTUS SUL PALCO (PADOVA, 7 GIUGNO 1984)