Sin dai primi frame del lungometraggio “Era giovane e aveva gli occhi chiari” si intuisce prima e si afferra poi la maestria e l’originalità di un regista caleidoscopico, che guarda in maniera sfaccettata e variegata alla realtà e all’animo umano. Giovanni Mazzitelli, alla sua opera prima, ha condotto per mano lo spettatore all’interno della trama di un film mai noioso e dentro sé stesso, girato tra il 2015 ed il 2016 tra Roma, Vietri, Miseno, Cava de’ Tirreni, Eboli, Portici, Ercolano e Napoli. Il rischio era cadere nella retorica e nel dejavù, ma il giovane regista porticese, riesce abilmente a schivare il pericolo e sorprendere, oltre che emozionare. Ci sono tutti gli ingredienti di una commedia romantica, ma impreziosita da incursioni e scelte stilistiche che si allontanano dalla classicità, conferendo all’opera un quid in più di ironia, originalità, finanche fantascienza, oltre al ritmo serrato e ben calibrato. La bravura del regista, già conosciuto per la sceneggiatura di “Vitriol” (2012) e per il docufilm “Solving” (2014), è stata quella di fondere tutto con eleganza e acume. Il prodotto, di cui si apprezza la ricercatezza e accuratezza di ogni particolare, dai suoni, soprattutto quelli fuori campo, ai dettagli visivi densi di significato, alla sceneggiatura, che non concede nulla alla banalità, fa di sé un’opera completa.
“Era giovane e aveva gli occhi chiari”, in concorso ufficiale all’ultimo Social World Film Festival di Vico Equense, vanta un cast di tutto rispetto: Mario Di Fonzo, Federica De Benedittis, Carola Santopaolo, Giacomo Rizzo, Fabio de Caro, Tina Femiano, Silvia Luzzi, Alice Pagotto, Iole Casalini, Flavia Gatti. Fabio de Caro, in particolare, da camorrista di Gomorra si trasforma per l’occasione in sindacalista dell’Ilva di Bagnoli. De Caro, sveste i panni del cattivo e nel film di Giovanni Mazzitelli si trasforma in un ironico direttore del centro ex dipendenti polo industriale di Napoli Ovest, impegnato, col carisma e la personalità che lo contraddistinguono cinematograficamente, a organizzare improbabili sfide a tennis col protagonista. Mario di Fonzo è un giovane uomo che potrebbe rappresentare ognuno di noi, attraverso di lui passa l’anima esistenziale dell’opera, vissuta però con ironia e in alcuni tratti “leggerezza”, che non è superficialità, ma rivela profondità di pensiero e sentimento, come ci insegna Fabrizio De Andrè, che dell’animo umano ha narrato in chiave musicale umori e passioni. Una leggerezza poetica, predomina in diversi tratti del film, mai stonata, mai ridondante, mai inopportuna.
Ciò che si chiede il protagonista, che è un po’il fil rouge del plot, è un po’ quello che ci si domanda, specie nei momenti, di maggiore disorientamento nella vita: qual è il modo più giusto per vivere la propria vita? Agli estremi o nel mezzo, come l’apparenza di felicità delle persone che non rischiano? Se lo chiederà Di Fonzo, per poi ritrovarsi in un vortice di situazioni al limite del verosimile, fatto di giovani donne, filosofi alieni immaginari (o forse no), produttori cinematografici “a ribasso”, ninfomani, morti apparenti e fantasmi della propria memoria. Una notte di metà inverno, una delle tante in cui il protagonista è succube dell’insonnia, verrà sconvolta dall’arrivo della bella e misteriosa Alessandra, una donna in cerca di aiuto. Un incontro fugace, al quale sembrerebbe non possano seguirne altri, ed invece il fato intreccia nuovamente le vite dei due, che a mano a mano si sveleranno nella loro natura, non sempre serena e spesso fuori da ogni regola socialmente condivisa. Seguiranno così una serie di straordinari e bizzarri eventi, in cui gli attori principali si avvicineranno e allontaneranno intrecciando le proprie vite a quelle di altri personaggi, reali o vivi solo in un ricordo ancora nitido.
Ciò che mi ha impressionata di quest’opera e che ne fa un vessillo del cinema giovane italiano è l’uso non comune della dimensione onirica, fusa nell’opera come un direttore d’orchestra, con la sua bacchetta, farebbe con le note degli strumenti dell’ensemble, in una dimensione armonica e coerente. Di Giovanni Mazzitelli colpisce la sensibilità con cui concepisce e definisce l’ attenta analisi psicologica dei personaggi alla ricerca di sé stessi o del proprio tempo smarrito, di matrice alleniana, così come lo sguardo a tratti malinconico e ironico, che racconta silenzi, vuoti, personalità eccentriche e devastate dalla consapevolezza della fine delle cose e dall’incapacità di vivere (forse) la pienezza della vita, di ispirazione bergmaniana. La vena visionaria del film di Mazzitelli non può non richiamare alla mente il piccolo mondo onirico e visionario, che attinge all’innocenza del mondo dell’infanzia, ai sogni e ai desideri, che superano la dimensione razionale del tempo, ritrovabile nella filmografia di Michel Gondry.