Erasmus, un’ottima ragione per credere nell’Europa

Il 25 marzo del 1957 nasceva ufficialmente a Roma la Comunità Economica Europea, antesignana dell’attuale Unione Europea. Oggi, a sessant’anni dai suoi primi passi sulla scena internazionale, l’intera costruzione europea viene messa in seria discussione da molteplici fattori destabilizzanti e divisivi: la perdurante crisi economica, il ritorno a vecchie logiche nazionaliste e populiste, la questione migranti ed il terrorismo internazionale, lo shock della Brexit e l’elezione di un presidente americano “politically uncorrect” rappresentano allo stesso tempo un grave pericolo ed un formidabile trampolino di (ri)lancio del progetto europeo.

In occasione di un anniversario di tale portata, è lecito chiedersi come e perché il processo di integrazione subisca ciclicamente delle battute d’arresto, in che modo uscire dall’impasse politico in cui l’Unione è piombata ma, soprattutto, quali e quanti benefici abbia apportato concretamente l’Unione ai cittadini europei. Per quanto polifoniche siano le posizioni in merito e per quanto sia impossibile riassumere esaustivamente pregi e problemi di 60 anni di integrazione, l’opinione di chi scrive è che il progetto europeo abbia in sé le potenzialità per rovesciare la narrativa dominante nell’opinione pubblica. Se, da un lato, le istituzioni europee soffrono di un evidente deficit di democraticità e l’Europa sociale è un concetto attualmente svuotato di significato, chi scrive ha ragione di credere che il futuro del progetto europeo abbia ottime possibilità di essere salvato ed implementato. Il periodo storico che stiamo vivendo sta forgiando, infatti, una nuova generazione di studenti e di uomini: la cosiddetta “generazione Erasmus”.

Se è vero che la storia è scritta da chi la vive, questa nuova generazione sta avendo la possibilità di toccare con mano i benefici dell’integrazione culturale. Il progetto Erasmus+, formidabile strumento di socializzazione ed integrazione, nasce e cresce con l’intento di fornire agli studenti europei la possibilità di uscire dal proprio nido sicuro, immergersi tout court in un melting pot di culture e carpirne particolarità, differenze e similitudini. Difatti, per quanto l’uomo sia un “animale sociale”, è nella sua natura essere diffidente ed autoreferenziale (logica neo-sovranista docet): la nuova generazione di uomini e donne europei ha dunque la possibilità di cambiare dall’interno quel sistema che oggi sembra fare un passo avanti e due indietro lungo la strada della disintegrazione.

Il progetto Erasmus+ si inserisce con forza in un contesto socio-economico in cui quasi 6 milioni di giovani europei sono disoccupati, con livelli che in alcuni paesi superano il 50%, ma che allo stesso tempo registra oltre 2 milioni di posti di lavoro “qualificato” liberi (ricerche svolte dagli organi competenti dell’UE indicano che ben un terzo dei datori di lavoro segnala difficoltà ad assumere personale con le qualifiche richieste): al sussistere di importanti deficit di competenze e di cultura, il progetto Erasmus+ tenta di opporre molteplici iniziative che, tramite un bilancio stanziato in ben 14.7 miliardi di euro per il periodo 2014-2020 (con un aumento del 40% rispetto alla programmazione precedente), sono pensate per dare risposte concrete a queste problematiche. Ad oggi, opportunità di studio, di formazione, di esperienze lavorative o di volontariato all’estero rappresentano la norma e non più l’eccezione per le nuove generazioni.

È opinione di chi scrive che, in un periodo storico in cui la disaffezione verso una istituzione avvertita come lontana e dispotica ha raggiunto i suoi picchi più alti ed in cui, allo stesso tempo, la politica nazionale ed internazionale non sembra offrire figure di spicco in grado di coadiuvare consensi intorno all’ideale europeo, l’unica strada verso una sempre maggiore e reale integrazione parte da una rivoluzione culturale. Solamente uomini e donne intimamente convinti che il progetto europeo rappresenti una grande opportunità piuttosto che un vincolo, un enorme guadagno piuttosto che una sonora perdita, possono diventare i nuovi volti attorno a cui ricostruire con coraggio e responsabilità un’idea di Europa in cui “non si coalizzano Stati, ma si uniscono uomini” (Jean Monnet).

Scritto da Adriano Ranalli


Classe ’93, residente a Pozzuoli. Amante del confronto dialettico e della buona informazione, è membro de “L’Inziativa” per cui scrive dal novembre 2014. Laureato in Scienze Politiche dell’Europa e Strategie di Sviluppo, studia per lavorare nel campo della diplomazia.