Le immagini fotografiche di Evgen Bavčar sono una vera e propria sfida al limite fisico della sua cecità. Ognuna di esse, nella sua poeticità, rimarca una volta di più quanto guardare e vedere siano due concetti estremamente diversi.
“Lo sguardo ferito di Eros” è il nome della mostra dell’artista sloveno inaugurata il 18 ottobre al museo Archeologico nazionale di Napoli (http://cir.campania.beniculturali.it/museoarcheologiconazionale/ ) alla presenza del fotografo. L’evento è stato organizzato in collaborazione con Akab Progetto Cultura, con il Patrocinio del Comune di Napoli, ed è incluso tra le iniziative del Servizio Educativo della Soprintendenza dei Beni Culturali di Napoli.
I fondi per l’iniziativa sono stati raccolti grazie al crowdfunding. La curatrice Magda Marasco, sua grande amica, ha raccontato quanto Evgen le abbia insegnato a guardare le cose in modo diverso, definendolo “sovvertitore della realtà così come noi la vediamo”.
“Oggi, qui a Napoli, mi sento molto piccolo. Sono colpito dall’amore con cui questa città mi ha accolto, e scopro sempre cose nuove quando gli altri parlano delle mie foto con il cuore”. Questo il commento dell’artista , visibilmente emozionato, a margine della presentazione della sua mostra, che sarà visibile fino al 23 novembre.
Introducendo i temi dell’ esposizione, l’artista ha motivato così la scelta della dea Afrodite come soggetto principale delle sue foto, insieme ad Adone e Cupido: “Perché Afrodite? Perché tra l’uomo e l’amore c’è sempre la donna. Ho scelto eros, perché è per me ciò che avvicina l’uomo e il mondo. Tra l’uomo e il mondo vi è sempre un muro. Ed io su questo muro ci poggio una fotografia, di tanto in tanto”. Il fotografo ha sottolineato come le sue icone siano di per sé stesse mute ed è lo sguardo dello spettatore a farle “parlare” o meglio “dialogare”.
La mostra prevede 25 foto, tra cui alcune dedicate a Napoli e scattate all’interno dello stesso Museo in vista dell’evento.
Bavčar nasce in Slovenia, nel 1946. Laureato in filosofia alla Sorbona, ha perso la vista ad 11 anni, in seguito a due tragici incidenti. A chi si chiede come sia possibile che un cieco possa dedicarsi con tanta maestria alla fotografia, l’arte visiva per eccellenza, l’artista risponde: “I ciechi vedono l’invisibile”, facendo immediatamente riecheggiare nella nostra mente l’espressione “l’essenziale è invisibile agli occhi”, tanto cara a Antoine de Saint-Exupéry nel suo capolavoro “Il piccolo principe”.
Sulla scia della cultura greca, secondo cui i ciechi siano in possesso di poteri divinatori, Bavčar ci permette di accedere ad una dimensione mitica e trascendente. È così infatti che definisce le sue foto: “Le mie foto sono trascendenti, perché io non le vedrò mai”. Le sue immagini sono rielaborazioni interiori, ricostruzioni di ricordi per raccontare la sua nostalgia della luce.
Come lui stesso ricorda: “Eros e Psiche hanno vissuto nel buio ed è dal buio e dal suono che tutto ha inizio”. Considerato dal poeta tedesco Walter Aue il quarto inventore della fotografia dopo Niepce, Talbot e Daguerre, la sua opera è un invito provocatorio a mettere in discussione la gerarchia per cui la maggioranza dei vedenti impone la propria percezione come quella in grado di afferrare a pieno la realtà, mettendo in relazione vista, cecità e invisibile.
Le immagini interiori di Bavčar cominciano infatti da un attento studio dei suoni, dei rumori, delle voci dei soggetti fotografati. È possibile affermare che la sua fotografia sia dunque questo: il verbo, il suono primordiale divenuto immagine, ma anche un “testo” mai scritto e in continuo divenire.