FOTO DI PAOLO VISONE
Domenica, 20 Dicembre 2015, alle ore 18:00, al teatro Sant’Artema di Monteruscello, si è svolta la proiezione dell’ultimo lavoro di EN ART, “Figli di Medea”, cortometraggio di circa 26 minuti diretto dal regista Mauro di Rosa, con la collaborazione di una vasta squadra di attori e di tecnici di alto livello professionale.
Non è il primo lavoro prodotto da En Art. Basti ricordare che lo scorso dicembre 2014 l’associazione aveva inscenato “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli”, opera in chiave teatrale tratta dall’omonimo libro di Antonio Menna. Nonostante il diverso impatto comunicativo ed emotivo che comporta un’opera teatrale, “Figli di Medea” non è meno diretto del precedente lavoro, se parliamo in termini di dialogo empatico e catartico tra attore e pubblico. La chiave comune è sempre la stessa: il territorio partenopeo e flegreo con tutte le sue problematiche sociali e politiche.
Mentre il lavoro teatrale aveva come protagonisti due giovani napoletani, geni in erba, pieni di entusiasmo e voglia di fare, attorno ai quali giravano dinamiche e personaggi sfavorevoli al loro spirito di iniziativa, “Figli di Medea” è stato strutturato in maniera diversa, scegliendo più attori, con personalità variegate, “cucite” e adattate con maestria dallo stesso regista.
La vicenda si svolge negli anfratti di Monterusciello, periferia puteolana, ma attenzione: non è un lavoro su un singolo, determinato quartiere, ma sui disagi dei tempi moderni. Monterusciello viene scelta così come location ideale e senza tempo di una sofferenza più generale.
Il corto esordisce con un marasma di personaggi, a prima vista isolati tra loro, appartenenti a diversi contesti sociali, che vivono la propria quotidianità; quotidianità problematica, afflitta dalle note complicazioni che caratterizzano la contemporaneità del sud, quali le incognite lavorative, le instabilità sociali e i loschi segreti talvolta nascosti o interrati nelle nostre terre. Ciò che emerge è l’umanità dei personaggi, vittime di un sistema che tarpa le ali, di qualcosa che non ha nome e che svilisce, descritta dall’intensità delle interpretazioni e dai frequenti primi piano.
Vari temi sono presi in considerazione: il lavoro, le idee, l’amore inteso in senso stretto e lato come la passione per i propri sogni, per la propria terra; l’onestà e la disonestà, l’entusiasmo e l’avvilimento si intrecciano come le vite dei personaggi, figli di uno stesso destino che non lascia spazio ai sogni, trattato con forte realismo che sfocia quasi nel pessimismo e arriva allo spettatore campano come un cazzotto nello stomaco; un pessimismo che, se osservato e analizzato con sensibilità intellettuale, lascia una porta socchiusa alla speranza, alla perseveranza, rappresentata dal binario di un treno che porta dritto, non solo per fuggire.
DI FRANCESCA MARANO