L’istituto di ricerca politica e sociale Demos&Pi ha recentemente pubblicato un sondaggio inerente le prospettive dei giovani italiani nell’attuale contesto socioeconomico. Alla luce dei dati raccolti, risulta evidente il fatto che la crisi che viviamo ormai dal 2008 non solo ha paralizzato l’economia a causa della disoccupazione, ma ha reso povero anche chi lavora. Se tra le ragioni della disoccupazione giovanile ritroviamo sicuramente il prolungamento delle carriere degli anziani e dunque il mancato rinnovamento generazionale, è ad ogni modo opportuno specificare che per adulti e ultracinquantenni che hanno perso l’impiego, il reinserimento nel mondo del lavoro è estremamente difficile, e la situazione è resa ancor più critica dal fatto che non di rado questi vivono in famiglie dove erano gli unici a percepire un reddito. In effetti, se prima un unico lavoratore all’interno di un nucleo familiare era sufficiente per permettersi una vita dignitosa, oggi questo è impensabile; tuttavia, secondo la Banca d’Italia, “le famiglie operaie nel 45,9% dei casi hanno solo un percettore di reddito in famiglia e quasi la metà non ha un’abitazione di proprietà”. È opportuno specificare, inoltre, che il problema non riguarda esclusivamente la povertà relativa: la povertà assoluta in Italia dilagava già prima della crisi per poi crescere dal 2005 in poi, fino ad arrivare all’11,8% nel 2015. In questo contesto s’inseriscono i dati relativi alle prospettive dei giovani nel nostro Paese.
I giovani d’oggi avranno in futuro una posizione sociale ed economica peggiore, più o meno uguale o migliore rispetto a quella dei loro genitori?
I dati empirici del sondaggio rivelano che la stragrande maggioranza delle persone intervistate ritiene che le condizioni saranno indubbiamente peggiori. Del resto, è ormai tristemente risaputo che la nuova generazione risulta essere la prima più povera di quella precedente, e non solo in Italia: basti pensare al fatto che, come riporta il Guardian, per la prima volta in Francia i pensionati generano più reddito degli individui al di sotto dei cinquanta anni; in Australia i giovani sono del tutto tagliati fuori dal mercato immobiliare; in America il debito che ogni studente deve saldare per il finanziamento degli studi rende pressoché impossibile il possesso di un’abitazione. In Italia e in Spagna c’è il più alto numero di trentenni che, a causa della disoccupazione e della scarsità dei salari, vivono con i genitori. Non a caso, quella che va dai 25 ai 34 anni è attualmente la fascia anagrafica più povera e anche quella che, nel sondaggio della Demos&Pi, è risultata più pessimista. I risultati per quanto riguarda le opportunità dell’ultima generazione rispetto a quelle dei genitori sono analogamente sconfortanti.
Per i giovani che vogliono fare carriera l’unica speranza è andare all’estero?
Per il 53% di giovani tra i 18 e i 24 anni e addirittura il 73% della fascia compresa tra i 25 e i 34 è così. L’annosa questione della cosiddetta fuga di cervelli è un problema concreto, specie in Italia: se da un lato la mobilità dei professionisti è fonte di arricchimento e scambio culturale, dall’altro rappresenta un’innegabile ed ingente perdita di capitale umano, oltre a costituire una grave sconfitta per il nostro Paese.
Proprio negli ultimi giorni, la questione è stata portata alla ribalta dallo spiacevole caso Poletti: secondo il ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, non avere tra i piedi 100mila giovani che se ne vanno all’estero sarebbe un bene. Ovviamente le reazioni e le risposte alla dichiarazione sono state molteplici, non solo da parte di altri politici ma soprattutto da parte di giovani emigrati italiani che da tutto il mondo hanno sottolineato il loro sdegno, dando voce al dolore e alla rabbia di chi, nel suo Paese, non ha mai potuto vedere valorizzate le proprie capacità né realizzati i propri sogni. L’episodio non è che l’emblema dell’incapacità delle politiche degli ultimi decenni di creare premesse favorevoli all’occupazione e al pieno soddisfacimento dei bisogni della società, con la conseguente condanna dei lavoratori alla frustrazione della precarietà e la mancanza di terreno fertile per qualsiasi progetto o prospettiva futura.
A tal proposito, uno dei quesiti posti nel sondaggio è la percentuale di accordo e disaccordo con la seguente affermazione: “Oggi è inutile fare progetti impegnativi di per sé o per la propria famiglia, perché il futuro è incerto e carico di rischi”. Anche in questo caso, la disillusione s’insinua pericolosamente tra i giovani. Un dato interessante, che si ripete pressoché in tutte le risposte ai quesiti del sondaggio, è il divario tra la fascia anagrafica che va dai 18 ai 24 anni e quella che va dai 25 ai 34: sebbene entrambe le fasce abbiano evidenziato realtà abbastanza negative, è evidente che la seconda è decisamente più pessimista della prima, specie per quanto riguarda il quesito circa le prospettive di lavoro per chi resta in Italia. Questo è probabilmente dovuto al fatto che, se la prima fascia è costituita per lo più da studenti, la seconda ha ormai terminato il percorso accademico e si ritrova ora ad affrontare concretamente il mondo del lavoro, ad oggi ostile e poco inclusivo.
Pensando alla sua vita, in generale, lei in che misura direbbe di sentirsi solo?
La percentuale della percezione della solitudine è anche stavolta più alta nelle fasce giovanili, che vanno dal 31 al 38%, con un picco particolarmente alto per quanto riguarda i giovani disoccupati. Forse inaspettato ed inusuale, quest’ultimo quesito riportato dal sondaggio racchiude in realtà il nocciolo dell’intera questione, volgendo uno sguardo d’insieme su tutte le sfaccettature di un problema che si ramifica in vari contesti, ma che ha origine da poche matrici essenziali. La sensazione di solitudine appare facilmente come qualcosa di contraddittorio nell’epoca della globalizzazione e di Internet. In realtà, questa testimonia il fallimento della società post – moderna con le sue mille contraddizioni: un’idea fallace di progresso, che vede la dignità umana in condizione di subalternità ad uno sviluppo economico iniquo; una società sempre più massificata, in cui le strutture di raccordo tra popolazione e potere, un tempo forti – quali i sindacati e i partiti di massa – sono venute a mancare, determinando un’immensa difficoltà di organizzazione da parte dei cittadini; individualismo e consumismo dilaganti; crisi economica e sociale.
CHE FARE? – Alla luce dell’interconnessione tra le dinamiche politiche, economiche, sociali, culturali e psicologiche non deve dunque sorprendere se il senso di solitudine si acuisce in un contesto socioeconomico così alienante. Occorre creare premesse che diano a tutti la possibilità di una piena realizzazione personale, e per farlo c’è bisogno di ridisegnare la società partendo dalle esigenze delle persone e della collettività: il diritto all’abitare; il diritto ad un’istruzione accessibile a tutti e di qualità, che rappresenti un’occasione di scoperta e valorizzazione delle proprie attitudini e delle proprie passioni; il diritto ad un lavoro che non sia schiavitù né ossessione bensì una dignitosa fonte di reddito e soprattutto di arricchimento personale e professionale; il diritto ad un’informazione adeguata, svincolata dalle logiche di potere e di marketing; il diritto ad una formazione che si faccia promotrice di senso critico e coscienza civica e che contribuisca a creare partecipazione attiva da parte della cittadinanza ai processi politici e sociali. Sono necessarie soluzioni nuove e, proprio per questo, sarebbe opportuno che arrivassero dai giovani, da chi più di tutti vive il disagio sociale di questo tempo. E che i giovani cominciassero a discutere di questi temi, per poi organizzarsi, nel modo più moderno e opportuno dettato dai tempi. Bisogna invertire il senso di marcia, perché un Paese che non investe nell’istruzione, nel lavoro, nella cultura, è un Paese che non investe nel suo futuro. E se stanno distruggendo il futuro, allora c’è bisogno che il futuro si salvi in fretta da sé e che costruisca un’alternativa migliore.