“Isis: il marketing dell’apocalisse” / Intervista all’autore Bruno Ballardini, giornalista e scrittore

12285690_10208072434712889_1372081304_nUn invito o forse una provocazione alle istituzioni locali. Bruno Ballardini, giornalista e scrittore, lo sostiene con convinzione: «Napoli potrebbe essere la capitale dell’interscambio culturale ed economico tra Medio Oriente e Occidente. Si potrebbe organizzare proprio qui, al centro del Mediterraneo, un summit per la pace e lo scambio solo con rappresentanti della cultura, del commercio con l’estero e delle organizzazioni umanitarie».

Bruno Ballardini, autore del libro “Isis — Il marketing dell’apocalisse” (Baldini e Castoldi editore ) ospite della rassegna “L’arte della felicità”, ha incontrato il pubblico al cinema Modernissimo in una sala gremita e attenta.

Dopo gli attentati di Parigi, in Europa nessun luogo appare più sicuro. Ballardini analizza il ruolo dell’Europa, dell’Italia e di Napoli. Il messaggio che intende evidenziare è chiaro. L’orrore dell’Isis è entrato nelle nostre case e la sua guerra mediatica ne ingigantisce il pericolo. Questa regia lo distingue da al-Qaeda, tanto che per Ballardini il modo in cui l’Isis fa propaganda si può considerare l’11 settembre della comunicazione politica. Al nostro etnocentrismo, l’Isis risponde specularmente, con un Califfato oltre il quale non possono esistere altre culture. Al nostro imperialismo risponde con la globalizzazione dell’Islam. Ai nostri miti contrappone altrettanti miti, opposti e arcaici. E’ per questo il principale campo di battaglia sono i media stessi. Ballardini analizza le ragioni storiche e le tecniche di questa guerra culturale, e ci costringe a riflettere anche sul nostro modello di pensiero unico, di cui l’Isis, ci piaccia o no, è figlio.

Bruno qual è la strategia di comunicazione dell’Isis? Nella loro organizzazione c’è una policy molto rigida. Nella loro strategia mediatica la visione delle esecuzioni con gli sgozzamenti è la parte minore. Conoscono molto bene l’arte e le tecniche della pubblicità e le usano egregiamente. L’Isis esiste dal 2006, irrompe sulla scena nel 2012, ma la campagna mediatica esplode nel 2014. Gli jihadisti utilizzano nella loro campagna mediatica un vero e proprio palinsesto, non un format unico, che comprende video-trailer, telegiornali, reportage e tanto altro. Ogni format ha un suo target

Gli jihadisti hanno delle proprie case di produzione? Sì, esistono almeno una decina di case di produzione nello Stato islamico. Le principali sono Al Hayat Media Center e Al Furqan, che producono video – messaggi per spaventare l’Occidente. Questi video negli Stati islamici fanno parte della propaganda e vengono proiettati nelle piazze su maxi-schermi. Lo spazio mediatico per loro è fondamentale, rappresenta il 50% della strategia di guerra del Califfato.Attraverso la campagna mediatica hanno fatto credere di essere un vero e proprio esercito, ma in realtà sono 150.000/ 170.000 in totale. Conoscono alla perfezione le tecniche pubblicitarie, che applicano nei trailer, ma anche la storia del cinema. Uno dei video da loro prodotto “flames of war” possiede caratteristiche tecniche, di ripresa, di effetti sonori e video-editing molto evoluti, che fanno trapelare la presenza di occidentali nelle stesse case di produzione. Alcuni video sono costruiti per creare la promessa della “ felicità futura”. C’è un video in particolare, prodotto dalla casa di produzione “ Al Hayat” in cui è mostrato un foreign fighter canadese che spiega le ragioni della sua adesione all’Isis e l’abbandono della sua vita normale in Canada, della sua famiglia, del suo lavoro. Alla fine è ripresa la morte in diretta dell’uomo, che viene sparato in aeroporto e si accascia a terra. Si tratta chiaramente di una strumentalizzazione della regia per mostrare la morte come martiri in vista di una felicità post-mortem promessa. Addirittura in alcuni video, che sono circolati su twitter, si vedeva un membro dell’organizzazione spruzzare profumo ad un kamikaze, poco prima che si facesse saltare in aria, perché dopo l’esplosione emanasse profumo che richiamasse il paradiso ultraterreno.

Parliamo invece della realizzazione dei reportage, che ruolo hanno per lo Stato islamico? Sono fondamentali per la propaganda interna, per mostrare che nel loro territorio tutto funziona e si vive bene. Proiettano l’immagine di un vero e proprio Stato e il messaggio che trapela è un invito ad andare a vivere lì. E’ emblematico il caso di un prigioniero, un reporter inglese John Cuntlie, sequestrato a novembre 2012, che è diventato l’anchorman del telegiornale dello Stato islamico, in cui conduce vestito da prigioniero. L’uomo è utilizzato come voce ufficiale della propaganda jihadista e ha realizzato veri e propri reportage per il Califfato, in cui è mostrata la vita quotidiana della città di kobane, a nord della Siria e di Mosul per mostrare il funzionamento interno del proclamato Stato islamico e per trasmettere un’immagine di benessere. Ora è diventato l’ambasciatore di Al Baghdabi, la mente suprema del Califfato.

Da chi è finanziato il Califfato? Da chi ha interesse che esista per ridisegnare la mappa geopolitica del mondo. Gli jihadisti nascono come costola di Al Quaeda e poi l’organizzazione ha raggruppato gruppi eterogenei di diversa provenienza, molti nati dalle macerie dei vecchi regimi, ai quali ha posto fine la primavera araba. I primi finanziatori degli Jihadisti sono stati tutti coloro che avevano ed hanno interesse a far cadere il governo di Assad In Siria, che, non a caso, è stato marchiato come regime feroce. A partire dalla Siria stessa, che è sotto l’egida dell’Onu e quindi degli Usa e di Israele. Fondamentale in questo scacchiere gli interessi in gioco legati all’approviggionamento del petrolio e del gas e la vicinanza del governo siriano alla Russia, con tutte le conseguenze politiche ed economiche che ne derivano. Quella che è camuffata come guerra di religione è una vera e propria guerra geopolitica. Il problema è che l’Isis è il prodotto di una situazione sfuggita di mano, in primis agli Stati Uniti. I gruppi di combattenti, ex militari e le nuove compagini sono il frutto dello sgretolamento di un potere forte. Una volta fatto cadere quest’ultimo c’è il rischio di ricadere in una sorta di tribalismo profondo e fuori controllo.

Come avviene l’indottrinamento jihadista? Avviene sin da bambini. Si usano anche videogames truccati in cui si simulano sparatorie ed esecuzioni, si creano molte situazioni con un “ nemico” ad hoc, e si forma nelle piccolissime menti la voglia di appartenere al Califfato.Ai tempi di Al Quaeda esistevano addirittura dei libri di produzione americana, diffusi da alcune onlus locali, in cui si insegnava l’aritmetica ai bambini attraverso gli esempi delle armi e il nemico da uccidere era russo. Questi libri sono stati distrutti, tranne una copia che si trova a Londra. Ai componenti del Califfato si promette il sogno di una felicità futura, ultraterrena che premierà i martiri. Questa promessa di felicità è ciò che attira anche i “ foreign fighters”, i combattenti stranieri, che hanno un’età compresa tra i 17 e i 24 anni. Sono per la maggior parte giovani che contestano la “prostituzione all’Occidente” e in assenza di valori forti a cui aggrapparsi nei paesi di origine si avvicinano allo Jihadismo. Come sostiene il sociologo Fuad Allam: “Siamo di fronte ad una islamizzazione del radicalismo, piuttosto che ad una radicalizzazione dell’islamismo”.

Il Califfato che tipo di interpretazione dà al Corano? Gli jihadisti sono sunniti e hanno un’interpretazione radicale dei testi sacri. La corrente religiosa del Califfato è quella salafita, che è la più estrema e radicale. Questo tipo di interpretazione religiosa è quella prevalente in Irak, in Arabia Saudita, nel Quatar ed è quella dei sauditi, tra cui c’è il numero maggiore di arruolati nell’Isis. C’è poi l’Islam sciita, più moderato, per molti aspetti poetico e non violento, che è quello prevalente in Iran, Egitto, in parte della Siria.

Qual è la diversità del Califfato rispetto ad Al Quaeda, che valore hanno i bombardamenti per sconfiggerlo e quali scenari si prospettano? Il Califfato è l’evoluzione di Al Quaeda. E’ molto più strutturato internamente e ha una velleità di espansione territoriale maggiore. I bombardamenti, come quelli su Rakka o Mosul, servono a poco o nulla, in realtà si bombardano solo i campi di addestramento. Servono altre strategie. Mi hanno impressionato le parole di un generale siriano che mi ha detto: “Se ci fossero impartiti ordini, l’esercito siriano distruggerebbe l’Isis in due giorni. Ma non è quello che ci viene chiesto”. Parole che dovrebbero far riflettere tutti. La cosa certa è che il sedicente Stato islamico si sta strutturando in vere e proprie regioni, province, che hanno una moneta interna “Il dinaro”, che circola solo nel loro territorio. E’ stato prodotto dal Califfato anche un reportage sull’immissione della loro moneta sul mercato, in cui si mostrava la felicità sui volti delle persone. Gli jihadisti hanno una strategia di sviluppo interno e di terrorismo che stanno provando a realizzare punto per punto e fino ad ora ci stanno riuscendo. Quello di Parigi, dello scorso 13 novembre, è il primo attacco terroristico a sciame realizzato. E’ un attacco che prevede un’unica regia e più cellule che agiscono contemporaneamente e simultaneamente. Una modalità nuova che getta nel panico un intero paese. Quello che loro vogliono è il riconoscimento dello Stato islamico, anche da parte dei paesi mediorientali. Per quanto riguarda il nostro paese forse si potrebbe assistere ad un’alleanza Stato-mafia in ottica anti-terrorismo. Quello che è evidente è che una volta si diceva: “occupiamoci di politica”, adesso l’espressione giusta è : “occupiamoci di geo-politica”.

Scritto da Valentina Soria


Mi chiamo Valentina Soria, sono giornalista pubblicista, laureata alla magistrale in Comunicazione Pubblica e d’Impresa. Mi interesso di comunicazione a 360°, dal giornalismo al copy writing alla cura di uffici stampa. Amo la mia terra flegrea e credo nell’importanza di dare “voce” alle piccole e grandi criticità del territorio con coraggio ed onestà.