La partecipazione politica alla vita democratica di un Paese è tema lungamente dibattuto da politologi e fini conoscitori dei meccanismi istituzionali. Gli studiosi della scienza politica ricercano continuamente il corretto equilibrio tra i modelli di democrazia rappresentativa generalmente applicati ed il principio di sovranità popolare conquistato gradualmente dalla Rivoluzione francese in poi. Il punto focale diviene dunque la ricerca degli strumenti e delle pratiche più adeguate a migliorare il funzionamento della democrazia, restituire la politica al cittadino e rinsaldare la fiducia nelle istituzioni.
È opinione diffusa che la politica non riesca più ad incidere sulla vita dei cittadini: l’impasse in cui stagna la democrazia contemporanea rappresenta la cartina tornasole di una crisi complessa e multidimensionale che comprende temi come la globalizzazione, la libertà di movimento dei capitali, la rapidità delle trasformazioni tecnologiche, la comunicazione politica immediata, l’assenza dei corpi intermedi, la personalizzazione della politica e tanto altro. All’erosione di sovranità interna alcune aree politiche rispondono invocando nazionalismo e bilateralismo come misura delle relazioni internazionali, altri invece sostengono multilateralismo e cooperazione come unico metodo per regolare efficacemente un mondo sempre più complesso, interconnesso e difficile da governare. Allo stesso modo, il tessuto sociale e politico di un Paese sembra non riuscire ad affrontare in maniera organica i principali temi di discussione dell’arena politica, riducendo il dibattito politico ad una mera contrapposizione di fazioni di tifosi.
Nel 2008, un saggio di alcuni studiosi (Cotta, Della Porta e Morlino) definì la politica come quello “spettacolo (per l’osservatore comune, ndr) che entra tutti i giorni in casa attraverso la televisione e, un po’ meno frequentemente, la radio e i giornali. Probabilmente (l’osservatore, ndr) la vede come un insieme di attività, discorsi, dichiarazioni, interviste, polemiche o anche trame tra politici e partiti. Comunque, come qualcosa al quale il cittadino partecipa solo al momento delle elezioni e a cui, soprattutto in questi anni, guarda con crescente estraneità e distacco”[1]. Tuttavia, l’esplosione dell’utilizzo dei social media e le modifiche del linguaggio politico – sempre più diretto e “vicino alla gente” – hanno dato vita nell’ultimo decennio ad un incredibile paradosso: si assottiglia il ruolo dei corpi intermedi e perde di senso il concetto di conoscenza condivisa, mentre parallelamente si moltiplicano le interazioni e le opinioni politiche tramite strumenti che non incentivano il confronto quanto piuttosto lo scontro.
In “An Economic Theory of Democracy”, profetico saggio di Anthony Downs del 1957, si inizia ad associare il mercato economico a quello politico: così come le aziende si collocano su segmenti di mercato a loro giudizio favorevoli, anche i partiti politici oggi sono sempre meno ideologici e sempre più simili a grandi macchine da voto, vere e proprie industrie del consenso e della comunicazione che orientano le proprie scelte politiche sui sondaggi e sugli interessi particolari del momento. La politica viene così privata dello spazio di confronto, ad essa intimamente collegato. La definizione stessa di politica suggerisce una riflessione sulle peculiarità e sui contenuti dell’agire politico: difatti si parla, per esempio, di “soluzione politica” in contrapposizione a soluzioni di tipo militare; ciò indica un modus operandi non violento e basato sul dialogo, che dovrebbe salvaguardare l’interesse pubblico attraverso la prevalenza delle opinioni e dei consensi. Tuttavia, lo svilimento del significato stesso di politica, accompagnato dalla personalizzazione della stessa attraverso la presenza di sempre più decisivi leader mediatici e comunicatori carismatici ed unito alla “presidenzializzazione” dei sistemi politici parlamentari pur senza organiche riforme costituzionali (penso allo spregiudicato utilizzo degli strumenti legislativi a disposizione del Governo o all’elezione quasi diretta del Primo Ministro) non fa che rendere incolmabile la distanza tra cittadini e politica.
L’insieme di questi fenomeni, qui solo sinteticamente esposti, danno l’idea della incapacità ed inefficacia delle odierne democrazie di dare risposte ai problemi che la modernità pone loro. Vari strumenti sono quotidianamente proposti per rendere più pieno il controllo popolare degli eletti sugli elettori: dalla centralità dello Stato regolatore si sono sviluppati modelli di sussidiarietà verticale per avvicinare quanto più possibile le decisioni al cittadino; gli strumenti di partecipazione garantiti costituzionalmente, come i referendum, vengono sempre più spesso richiamati in luogo dell’incapacità della politica di scegliere; il web, pur con tutte le sue contraddizioni (digital divide tra giovani e meno giovani, possibilità di manipolazione, incertezza ed intangibilità dei risultati delle votazioni), viene sempre più spesso utilizzato per organizzare mobilitazioni, incontri e persino produrre decisioni a livello nazionale. Ciascuno di questi strumenti sembra, tuttavia, non bastare ad avvicinare realmente la politica al cittadino: questi avverte l’esigenza di una reale accountability democratica e di strumenti nuovi per incidere sulla propria vita. È per questo che la partecipazione cittadina, intesa come sistema deliberativo che implica un approccio basato sul confronto nei confronti del conflitto politico e della risoluzione dei problemi (“Talk-based approach to political conflict and problem-solving”, secondo Floridia) diventa passo necessario e propedeutico al momento decisionale.
Come si evince dal dialogo avuto con alcuni giovani consiglieri comunali di Pozzuoli (clicca qui per l’intervista) risulta chiara, al netto delle divisioni partitiche e politiche, la necessità di integrare l’attività amministrativa con le istanze provenienti dalla società civile attraverso degli strumenti di democrazia partecipativa che mettano al centro le idee e le persone. La democrazia rappresentativa limitata al momento elettorale sembra perdere di senso in un momento storico in cui partiti ed ideologie sono liquida espressione della società moderna. Allo stesso tempo, la sfiducia verso la politica resa acclarata dall’aumento dell’astensionismo elettorale, ha portato in auge l’invocazione retorica e pericolosa che vuole “i cittadini al posto dei politici”: il presupposto che il popolo sia ragionevole e apartitico, fievolmente ideologico e tecnicamente preparato ad affrontare il governo di uno Stato, sembra essere una delle principali tesi da confutare se si desidera aumentare la qualità delle nostre democrazie.
Alla luce di tutto questo, l’allargamento del confronto sulle scelte pubbliche in maniera strutturata, continua e trasversale a tutti coloro su cui ricadranno le conseguenze di quelle stesse scelte e l’idea che, in virtù di un alto grado di condivisione, un dibattito deliberativo possa migliorare il contenuto delle decisioni accrescendone la legittimità (difendendo il principio dell’isegoria, l’uguale diritto di parlare e proporre in pubblico), sembrano rappresentare la strada corretta per riequilibrare sovranità popolare ed efficienza istituzionale.
L’essenza della democrazia non consiste nell’aggregazione delle preferenze, ossia nella conta dei voti, ma nella deliberazione approfondita sulle ragioni portati dalle parti in causa: il voto non si pone più a monte bensì a valle del processo di condivisione e dialogo. In definitiva, il ritorno agli spazi di aggregazione e discussione potrà non solo moderare “l’effetto tweet” della comunicazione e del dialogo politico, avvicinando i cittadini alla politica, ma potrà aiutare l’amministrazione nel prendere decisioni migliori ed il più possibile condivise, avvicinando nuovamente la politica ai cittadini.
[1] Scienza Politica. Cotta, Della Porta, Morlino. Il Mulino, 2008.