L’isola di Lampedusa, medaglia d’oro al valor civile, è considerata da anni una delle poche chance per migliaia di anime in cerca di salvezza. Si fugge dalla guerra, dalla povertà; quindi, molto spesso, da una probabile morte.
Con coraggio si tenta di cambiare il destino che l’esistenza ha preservato loro, dando vita ad un nuovo inizio.
Numerosi sono gli uomini che prestano servizio nella “Terra di mezzo”, toccando con mano una reale tragedia. Uno tra i tanti, ci ha concesso un’intervista, offrendoci la possibilità di guardare al fenomeno della migrazione con occhi diversi.
Cosa rappresenta per te, l’isola di Lampedusa?
A primo impatto, è quasi immediato notare quanto sia martoriata a causa dei violenti flussi migratori.
Vivendola, impari. Imparando, capisci che nient’altro può rappresentare se non la “Porta della speranza”.
Hai prestato numerose volte il tuo servizio presso l’isola Lampedusa. Consideri i tuoi servizi a Lampedusa più tutela della sicurezza nazionale oppure missioni umanitarie?
Credo che ancora non ci si renda bene conto cosa significhi accogliere in una sola notte ed in poche ore migliaia di migranti. Tutte le misure di sicurezza cessano, si cerca solo di salvare più persone possibili.
Si cerca di rifocillare e vestire tutti. Vengono visitati ed i casi più gravi vengono inviati in ospedale in elicottero, successivamente vengono assistite donne incinte e bambini. Solo dopo molte ore iniziano le porcedure di sicurezza (identificazione, documentazione del soggetto, pratiche burocratiche).
Lampedusa è e deve essere considerata a tutti gli effetti una missione umanitaria.
Durante la tua permanenza sull’isola, avrai sicuramente assistito alla morte di molte persone. Da cittadino italiano, o meglio europeo, quanto ti senti responsabile?
Purtroppo ho vissuto troppe e tante tragedie ed anche se ne fosse stata una, avrebbe avuto la stessa valenza.
Ti senti responsabile ad ogni squillo di una sirena d’allarme, ad ogni arrivo delle pilotine della Marina Militare o della Guardia di Finanza.
Si corre subito al porto sperando che non sia successo ancora.
La vita di un migrante vale quanto la propria. Concettualmente, solo in questo modo riusciremo a superare il razzismo.
Incrociando uno di quei tanti sguardi sopravvissuti, cosa hai percepito al momento?
Ho percepito tanta riconoscenza, i loro occhi sembravano ringraziarci in continuazione. Ce l’avevano fatta. Noi non li abbiamo presi in giro. Non li abbiamo rimandati indietro.
Cosa diresti a chi, appunto, vorrebbe che tornassero “A casa loro”?
Gli direi di pensare: una casa non ce l’hanno più.
Difendiamo le persone, non i confini.
ARTICOLO DI IVAN DE VITA
NB L’identità dell’intervistato è stata lasciata segreta in virtù della delicatezza delle attività svolte