Il suo nome non è ancora molto conosciuto , ma col suo disco di esordio, “Aspettamm’ ancora”, Antonio Maresca ha da subito occupato un posto di rilievo nel cantautorato napoletano contemporaneo. L’album, uscito all’inizio del mese di giugno e presentato in esclusiva al Cellar Theory di Napoli, è un interessante viaggio tra musica e testi impegnati, il giusto connubio tra sound e parole.
Prima di parlare del tuo album di esordio, visto che in molti non ti conoscono, parlaci un po’ di te, di come ti sei avvicinato alla musica e di come sei diventato l’artista che sei oggi.
“Alla musica mi sono avvicinato grazie a mio padre, che suonava la chitarra, ho iniziato col pianoforte quando avevo 9 anni e poi sono passato alla chitarra verso i 12 anni. Quando mio padre è venuto a mancare ho trovato uno stimolo in più per avvicinarmi a questo strumento. Intorno ai 16 anni ho fatto le mie prime esperienze suonando a Napoli, dopodiché mi sono trasferito a Roma, dove ho cominciato a suonare nelle prime cover band rock, iniziando ad appassionarmi soprattutto ad Hendrix. La stessa cosa mi è successa in seguito con Pino Daniele, ed è una cosa che si sente molto nell’album, ritengo che la sua musica rappresenti per noi napoletani un ponte verso la musica internazionale, tant’è vero che, in questo modo, io stesso mi sono trovato a scoprire artisti come Wheater Report e Pat Metheny. Intorno ai vent’anni ho vissuto per un paio di anni tra Inghilterra e Spagna, dove ho cominciato a suonare e affinare i miei gusti musicali, avvicinandomi a quella parte più fusion-jazz del rock. Da lì è nata la voglia di studiare seriamente la musica, passando da un approccio più istintivo ad uno più accademico. Tornato in Italia mi sono iscritto al Saint Louis di Roma dove ho studiato arrangiamento e chitarra jazz.”
L’album si chiama “Aspettamm’ ancora”, che è anche il titolo del primo brano. Hai scelto questo titolo per le motivazioni che poi si apprendono dal pezzo o c’è una motivazione più generale?
“L’idea nasce dal testo del brano, che vuole descrivere quel senso di impotenza che si prova di fronte a determinate cose che accadono nel mondo, quelle situazioni in cui l’unica cosa che si può fare è, appunto, aspettare. Poi però, siccome altri brani dell’album raccontano un po’ questo senso di attesa e di impotenza, è diventato un po’ il “leitmotiv” di tutto il lavoro. Anche perché la generazione dei trentenni e dei quarantenni, è quella che tende ad aspettare qualcosa che non è né quella che hanno avuto i nostri genitori, né quella che avranno le generazioni future, siamo un po’ nel mezzo. È un’attesa continua, si aspetta per una situazione lavorativa che cambierà o per una scelta importante nella propria vita, da qui nasce la scelta di questo titolo.”
Ascoltando tutto il tuo lavoro, si intuisce che l’album viaggia su due binari: da un lato c’è questa cura per il sound e per l’orecchiabilità dei pezzi, dall’altro c’è la volontà di trattare tematiche serie, come per esempio in “L’aria” oppure in “Funkazzista”, dove tu tratti dei temi sociali come l’occupazione .
“Musicalmente parlando, la mia volontà è quella di far tornare all’ascolto di un determinato tipo di musica un po’ più ricercato, che la gente, anche per la situazione musicale attuale, ha un po’ tralasciato, mentre credo che ci sia la voglia ancora di ascoltare un certo tipo di musica. Per quanto riguarda invece i testi, la scelta nasce sempre da un’esigenza legata a descrivere quell’insofferenza che è difficile da esprimere in altri modi se non con la musica.”
Quasi a metà album hai scelto di cambiare registro ed inserire due canzoni un po’ diverse dalle altre, con ritmiche diverse e molto sentite, vale a dire “Vento di melodia” e “Nun crire cchiu”. Questa differenza è dovuta al fatto che sono pezzi nati in periodi diversi dagli altri? Che storia hanno?
“La scelta dell’ordine dei brani in un disco è una cosa davvero difficile, “Vento di melodia” è un pezzo più recente rispetto ad altri presenti nell’album, sembra un brano che parla d’amore, mentre in realtà parla di come la musica sia un’àncora di salvezza, specie nei momenti difficili della vita. Molto spesso, in particolare per noi musicisti, suonare uno strumento e sfogare le frustrazioni nella musica aiuta molto a superare la sconforto ed è la soluzione a tutti i problemi. “Nun crire cchiu’”, invece, ha una storia un po’ più particolare perché fa riferimento al periodo in cui io ho vissuto in Inghilterra. Il testo parla di un ragazzo che ho conosciuto lì che ebbe una storia con una ragazza da cui nacque un figlio e, dopo aver lasciato tutto per lei, si è ritrovato solo e senza il conforto della musica. Quando mi ha raccontato la sua storia, ho avvertito come una pugnalata allo stomaco e ho scritto questo pezzo tutto d’un fiato, perché non avevo mai visto una persona che avesse smesso così tanto di credere in tutto.”
Dopo questi due brani, si torna un po’ al ritmo ed alla musicalità che caratterizzavano i primi pezzi dell’album, senza però tralasciare le tematiche impegnate: c’è subito, infatti, un pezzo di denuncia come “No More Camorra” ed uno un po’ più idealista come “Turntable”.
“No More Camorra è sicuramente il brano più vicino a me, l’ho scritto ripensando a un periodo della mia infanzia: mio padre, dopo anni di servizio alla Cementir di Bagnoli, con la liquidazione scelse di aprire un attività sulla via Domiziana. All’epoca, quella zona era un’alternativa per chi voleva allontanarsi dalla città e vivere vicino al mare. Ma con gli anni si è rivelata la scenografia di quello che oggi è noto a tutti come “Gomorra” In quegli anni ho vissuto situazioni limite di cronaca e scontri tra clan, che hanno segnato la mia vita.Invece “Turntable” è una critica all’idea che si tende a voler dare di questo paese, che ti dà due opzioni: o andare via e trovare una strada alternativa, oppure omologarti a questi talent show e questi reality televisivi che, in fondo, sono il male reale della cultura italiana, generando confusione nelle persone. Io insegno anche nelle scuole di musica e noto come i ragazzi di oggi non percepiscano più la differenza che c’è tra il volere qualcosa ed il sudare per realizzarla. In realtà, sono vittime di questi target, che ti fanno credere che lo studio e l’impegno non servano niente, che bisogna soltanto aspettare l’occasione giusta. L’idea del talent però non è sbagliata, il problema è che non si cerca mai chi ha qualcosa da dire: io, ad esempio, farei un talent show sui cantautori.”
Andando avanti con la scaletta del tuo album, ho notato che hai scelto di alternare un pezzo più spensierato come “L’importanza dei nomi” con uno più impegnato come “Nun ce vo niente cchiù”, nel quale ho ascoltato questa frase “’E vote nun capisco ma me fermo, guardo ‘o cielo e penso ca se po cagnà, ma è dentro me c’aggia guardà!” che è proprio il ritratto di ognuno di noi, che dobbiamo essere i primi a provare a cambiare, senza aspettare che altri facciano il primo passo.
“L’importanza dei nomi è un brano che ho scritto dopo aver suonato per un po’ di tempo a New York, tornato in Italia mi sono reso conto che non avevo testimonianze di ciò che avevo fatto, visto che ero in tourneè con una band che promuoveva unicamente il loro progetto, da lì ho capito quanto fosse importante il fatto di essere citato, perché in realtà in questo mondo basato sull’immagine, conta soltanto ciò che puoi dimostrare. “Nun ce vo niente cchiù”, invece, ha una chiave di lettura molto chiara: arrivi a un punto in cui ti aspetti che le soluzioni debbano arrivare dagli altri, quando basterebbe essere solo più civili e rispettosi e pensare anche alle future generazioni. E’ inutile illudersi di raggiungere un cambiamento collettivo, è solo un’ utopia.”
L’album si conclude con “Silent” che è un pezzo strumentale: solitamente questo tipo di brani nascono in studio, magari durante le registrazioni. E’ questo il caso o si tratta di un brano che avevi composto precedentemente?
“No, questo è un pezzo che avevo composto già da tempo e faceva parte di una serie di brani strumentali legati a una fase embrionale del progetto. L’idea era quella di registrare una versione elettrica che si avvicinasse di più al sound del disco. Ma avendo a disposizione in studio il piano a coda e il contrabbasso abbiamo provato a fare una versione acustica, che è rimasta la versione del disco. Inoltre il brano è in contrapposizione con il precedente “Nun ce vo niente cchiù” che termina con una lunga coda elettronica che si unisce a delle voci di sottofondo, come se volesse in qualche modo zittire tutte le chiacchiere che spesso si fanno in questi grandi summit politici.”
In definitiva, questo album è unico nel suo genere, nel senso che tu hai voluto riprendere un genere che è stato un po’ dimenticato dai napoletani, specie dopo la scomparsa di alcuni protagonisti che hanno reso grande questo tipo di musica, come Pino Daniele e Rino Zurzolo. Si tratta di un album molto coraggioso perché va a riprendere un discorso lasciato in sospeso, oltre a trattare delle tematiche molto importanti. Possiamo dire che queste due caratteristiche che ti rendono adesso l’artista che sei?
“Hai colto l’essenza di questo lavoro, il mio intento è quello di riportare queste atmosfere che, senza motivo stanno sparendo da Napoli, i napoletani hanno nel sangue questa musica. Oltre alla tradizione e alla musica popolare, anche il jazz, il funk ed il blues sono parte di questa città. Pino Daniele ne è stato un esempio di levatura internazionale. Ma l’innovazione è ancora possibile, io stesso vivendo a Roma prendo spunto dal cantautorato capitolino, ma credo che i nuovi cantautori napoletani non abbiano niente da invidiare al resto degli artisti nazionali.”
Di Fabio Cuoco