FOTO: PAOLO VISONE
Punto di rottura e di ricongiunzione. Il teatro come strumento di rivelazione, che scioglie i conflitti, sprigiona forze, libera possibilità. Ancora una volta è questa idea e insieme sintesi di teatro a trionfare in “Napoli ‘43”. Si tratta di un cunto storico realizzato da Enzo Moscato e proiettato al teatro Nuovo di Napoli dall’1 al 13 ottobre, in occasione del 70esimo anniversario delle quattro giornate di Napoli, quando, nel 1943, il popolo napoletano insorse contro gli occupanti tedeschi, liberando, in un moto spontaneo e impetuoso, la città. Lo spettacolo vede la partecipazione di un cast di ben 25 interpreti tra cui Antonio Casagrande, Benedetto Casillo, Cristina Donadio, Salvatore Cantalupo e lo stesso Moscato; il disegno luci è di Cesare Accetta, i costumi sono di Tata Barbalato, le musiche originali di Claudio Romano. “Napoli ‘43 – dichiara l’autore e regista – è un lavoro su frammenti. Un lavoro fatto su scampoli, ritagli, lembi esigui di qualcosa che una volta è stato intero e che ora è lacerato, rovinato, irrimediabile, nella sua interezza e integrità, che un tempo, certo, ha avuto”. Un pretesto dunque per parlare di altro, per riflettere sul presente.
L’epopea del ‘43 rivive nella storia di Moscato per ridestare le coscienze addormentate dal torpore, si pone come evento fondativo e rifondativo della storia contemporanea, che deve far rivivere indignazione e coraggio. Moscato affida la potenza espressiva della parola che mentre afferma “destruttura” e scompone ad un coro di voci, alla pluralità di un’umanità sotterrata, ma pur sempre pulsante e viva. Voci e corpi offesi, dilaniati, protagonisti indiscussi di quei giorni del ‘43, corpi che si fanno memoria collettiva, senza mai macchiarsi di retorica. Emerge un disparato mélange linguistico e stilistico che rimanda alla concretezza dei parlanti e in sostanza alla tangibilità dei corpi.
Attraverso una lingua che è dialettale, popolare e barocca insieme, arricchendosi in modi imprevedibili e copiosi, Moscato ci conduce nei vicoli di Napoli,quelli che “il mare non bagna”. Ci sembra di vedere l’orgoglio e la rabbia negli occhi degli uomini e la paura in quelli dei bambini, poi l’esplosione del moto di ribellione in maniera spontanea e improvvisa, un moto inarrestabile. Tutto è affidato alle voci, alla memoria, come pennellate che non rivelano mai del tutto la sostanza. E nei ricordi che emergono ci appaiono quei partigiani saliti sui carri “raggomitolati come i gatti quella notte, che portava con sé come una gemma (…) Nonostante tutto quella notte era bella (…)”. Eppure “le creature aspettano sempre e p’tutt’a vita’ agg’aspettat eterno infante qualcosa che credevo foss’ venut”. C’è qualcosa che è sfuggito all’oblio e all’indifferenza della storia ed è il sacrificio dei bambini. Quelli stessi bambini che dal fondo arrivano al proscenio per deporre, accanto ai giovani delle quattro giornate uccisi dai tedeschi, i loro peluche.
Un mònito, quello di Moscato, a ritrovare un’innocenza smarrita, come affrancamento dal torpore della mente, dai preconcetti e dalle illusioni che rendono flaccido e indolente lo spirito contemporaneo. “Perdersi, smarrirsi, con nessuna possibilità di ritrovarsi” si sente ripetere da una delle voci protagoniste, che, con toni disillusi, riecheggiano la condizione attuale di un’umanità degradata, che ha smarrito la memoria del passato “Se dimentichiamo il nostro passato siamo già condannati. Sul palco voglio evocare un’altra trincea che abbiamo il dovere morale di issare” commenta l’autore dell’opera. Il testo si esalta nel pluralismo delle voci, diventa fuoco vivo, invettiva contro i tedeschi ma anche contro i tanti napoletani di oggi che hanno dimenticato. Napoli ‘43 si pone come una testimonianza civile, provocatoria nell’auspicare un ritorno dei tedeschi come unica possibilità per ridestare orgoglio e slancio nel popolo vilipeso dalla storia, ma flaccido.
La coerenza strutturale dell’opera parte anche da una scenografia essenziale, scarna, buia che sembra catapultarci nel regno degli inferi e da cui emergono, anche fisicamente, i volti, i corpi e le voci protagoniste. A far da cornice, come fossero cicatrici, le immagini sceniche di Mimmo Paladino. Incisioni, stilizzazioni grafiche che acuiscono il contrasto tra il passato glorioso e il presente buio, ma che rimandano anche alla costante natura conflittuale, ciclicamente riprodotta, del rapporto tra la luce e il buio, che ha sempre caratterizzato l’essenza storica e antropologica dei napoletani, stretti tra gli inferi e la vita “in superficie”. Una natura misterica a cui fa da contraltare “ o’sole che canta miez’ e’scal ”. “ Oltre al rapporto con l’oblìo, con i morti, che è costante nella tradizione napoletana, gli inferi riecheggiano anche ad un oblìo diverso, di origine culturale, in cui sono precipitati 2.500 anni di cultura mediterranea” commenta Moscato, mostrando tutta la sua amarezza.
Ritroviamo nell’opera l’influenza di un teatro dell’assurdo d’oltr’alpe, che fa coesistere, mentre divide, vincitori e vinti, ma anche della migliore tradizione foucaultiana, che utilizza la parola fino al limite, sollecitando e insieme dissimulando. Senza mai tentare minimamente di conciliare i termini oppositivi della contraddizione in fieri, al contrario la parola li alimenta, li tiene in vita, e di essi si sostanzia. Allo stesso modo nell’ossimoro, i due termini che lo costituiscono rimangono visibili e attivi e l’antinomia, assunta come tale, non si risana. La parola interviene quindi a ribadire e sancire le profonde contraddizioni di una città ferita a morte, ma che ha trovato in sé, a partire da quei giorni del ‘43, il germe del riscatto. “ Rielaborare i giorni della ribellione popolare del 43’ rappresenta il tentativo di ricostruire una memoria collettiva che per incuria delle istituzioni, delle scuole, dei media si è degradata, rendendo i napoletani incapaci di reagire, di riscattarsi, di quella criticità necessaria ad affrontare il presente” commenta Enzo Moscato. “Esistono ancora valori positivi celati da quelli trionfanti al di là della maleducazione, protervia, violenza, mala informazione. C’è buona parte dei napoletani disposti ad appropriarsi del proprio passato” continua l’autore dell’opera, che sottolinea quanto il teatro diventi lo strumento di appropriazione. Il rischio dell’oblìo è la decadenza totale e il completo oscuramento di identità “ di un luogo che è stato crocevia di civiltà e di cultura ma che non riesce più a trovare il passo della modernità né a mantenere una fedeltà adeguata all’alta tradizione del suo passato” chiosa Moscato.
“Non era affatto la notte che avevano quelle orbite svuotate ma gli sguardi gli odori”. Forse che per superare “la notte” dovrebbero tornare i tedeschi? L’autore di Napoli ‘43 ci lascia con quest’interrogativo, amaro e necessario allo stesso tempo.