Domenica 17 aprile si svolgeranno le consultazioni elettorali per il referendum abrogativo sulle trivellazioni in mare, ovvero per l’abrogazione del comma 17 dell’articolo 6 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n.152 (il codice dell’ambiente). Il referendum è stato convocato con decreto del Presidente della Repubblica 15 febbraio 2016, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale– Serie Generale n.38 del 16 febbraio 2016, su richiesta di nove regioni: Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania, Molise. Agli italiani verrà chiesto se vogliono abrogare una norma che consente alle società petrolifere di estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane fino all’esaurimento del giacimento, senza limiti di tempo. Non si tratta di nuovi stabilimenti, già oggi vietati, ma di proroghe per gli impianti già insistenti.
A oggi nei mari italiani, entro le 12 miglia, sono presenti 79 piattaforme e 463 pozzi, distribuite tra mar Adriatico, mar Ionio e canale di Sicilia. Di queste, 9 concessioni (per 38 piattaforme) sono scadute o in scadenza ma con proroga già richiesta; le altre 17 concessioni (per 41 piattaforme) scadranno tra il 2017 e il 2027 e in caso di vittoria del Sì arriveranno comunque a naturale scadenza. Il referendum avrebbe conseguenze già entro il 2018 per 21 concessioni in totale sulle 31 attive: 7 sono in Sicilia, 5 in Calabria, 3 in Puglia, 2 in Basilicata e in Emilia-Romagna, una in Veneto e nelle Marche. Il quesito referendario riguarda anche 9 permessi di ricerca, quattro nell’alto Adriatico, 2 nell’Adriatico centrale davanti alle coste abruzzesi, uno nel mare di Sicilia, tra Pachino e Pozzallo, uno al largo di Pantelleria.
Il dibattito tra il sì e il no all’interno dell’opinione pubblica si sta scontrando su un terreno molto più teorico che pratico. Da una parte i sostenitori del sì che discorrono di una battaglia di principio per cominciare a pensare ad un’economia energetica pienamente green. Dall’altra quelli del no che argomentano in base alla necessità di tendere all’indipendenza energetica per non essere soggetti ad altri Stati importando comunque queste sostanze. È chiaro che muoversi su linee così generiche rischia di creare un limbo di motivazioni contrastanti (allo stesso modo entrambe convincenti), che tra astrazione e lungimiranza rischiano di non invogliare al voto. Soprattutto dopo la grave scelta del Governo di non prevedere la votazione in un election day con le amministrative (si voterà nei tre Comuni più popolati d’Italia) visto che nel referendum abrogativo a differenza di quello elettorale c’è la necessità che vada a votare almeno il 50 per cento più uno degli aventi diritto al voto. E se si aggiunge che il quesito è solo uno ed è stato proposto non dal basso ma dalle istituzioni si capisce che il percorso difficilmente potrà essere identico a quello del 2011, dove fu di poco superato il limite minimo per ottenere le abrogazioni su energia nucleare, acqua pubblica, legittimo impedimento.
Eppure di motivi pratici ce ne sono eccome. In primis i dati sull’inquinamento riportati da Greenpeace nelle zone dove sono presenti gli ecomostri. Per un Paese che ha un afflusso turistico come quello italiano non possono essere consentiti altri rinvii nel rimediare alla deturpazione delle sue risorse paesaggistiche e naturalistiche. Ci rimette tutto l’indotto, da decenni ritenuto il volano di sviluppo dell’Italia che sarà ma che al contempo non viene mai accompagnato da politiche forti in tal senso. Controbilanciando gli interessi si parlerebbe di un indotto enorme del settore turistico, soprattutto sotto il profilo occupazionale.
Da un’altra è una questione di legalità ed è inutile girarci attorno. Il nostro Paese soffre da troppo tempo un’incertezza nelle regole a causa di proroghe, eccezioni o rinvii (ad es. le norme sulla concessione delle spiagge o su quelle delle frequenze radiotelevisive). Nel caso di specie si aggira per l’ennesima volta una scelta democratica con escamotage che vanno solo a vantaggio di pochi. Se il voto delegato quindi non è sufficiente ad esprimersi su questo piano, per mantenere una parvenza di democrazia è il caso che il popolo italiano vada alle urne per votare sì.