Tra le riforme annunciate o già messe in campo dal Governo Renzi c’è quella del lavoro. Per mesi ministri, politici e rappresentanti del sindacato hanno rilasciato commenti e dichiarazioni, talvolta confuse, che ruotano sul decreto Poletti e sul “job act“. Se il primo provvedimento si è concretizzato sostanzialmente in una ratifica di ciò che il mondo delle imprese ha già imposto, ovvero la possibilità di reiterare contratti a termine con meno limiti (5 volte in un periodo di 36 mesi), il progetto di riforma più complessivo è stato trasferito in un disegno di legge, attualmente in discussione in Parlamento. In caso di approvazione, ne seguiranno entro i 6 mesi successivi, i decreti attuativi del Governo. Tutto rimandato al 2015, quindi, per quanto attiene ad ammortizzatori sociali, politiche attive, semplificazione dei contratti.
Ma entriamo nel merito della proposta, evidenziandone i contenuti più importanti e non pochi aspetti contraddittori.
Con riferimento agli strumenti di sostegno in caso di disoccupazione, sarebbe prevista una rimodulazione dell’Aspi (l’indennità di disoccupazione) “con omogeneizzazione della disciplina relativa ai trattamenti ordinari e brevi”, valutando la precedente storia contributiva del lavoratore; soprattutto, nel testo di legge si parla di “universalizzazione del campo di applicazione dell’Aspi, con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa”. Un fatto che sarebbe enormemente positivo, anche se va rilevato che chi ha scritto il testo ha dimenticato di menzionare le ben più diffuse collaborazioni a progetto, e potrebbe trattarsi di un errore tutt’altro che formale o banale.
Uno degli obiettivi dell’azione del Governo Renzi è la semplificazione delle leggi e delle regole. Non è un proposito al quale approcciarsi in modo necessariamente negativo. Anzi, “l’eliminazione delle norme interessate da rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali o amministrativi” non può che essere di aiuto in un ordinamento del lavoro sempre più complesso e spesso incerto. Il problema, ancora una volta, è capire in che direzione di rivolge questa “semplificazione”, che non è mai neutra, perchè figlia di una scelta politica di fondo, che deve decidere se le tutele vanno estese a chi non ce le ha o solo eliminate a chi le avute finora.
Ma è nel capitolo dedicato al “riordino delle forme contrattuali” che emergono le criticità più forti e rischiano di morire tutti i buoni propositi annunciati. Il Governo, in caso di approvazione del testo di legge, dovrebbe impegnarsi ad “individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale, anche in funzione di eventuali interventi di semplificazione delle medesime tipologie contrattuali“. L’obiettivo, più volte annunciato in Italia, di eliminare le forme di contratto più assurde e precarie viene dunque retrocesso ad un più blando intervento di semplificazione dei contratti inutili o poco applicati. Il capo successivo è un ulteriore prova di timidezza e insufficienza del disegno di riforma e consacra la scomparsa del “contratto unico” , che pure aveva suscitato interesse e speranze tra alcune categorie di lavoratori, specialmente quelle che fanno i conti con il precariato e la disparità di trattamento sui luoghi di lavoro. Questa è la lettera del testo di legge: “redazione di un testo organico che possa anche prevedere l’introduzione, eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali volete a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti”. Il contratto unico a tutele crescenti, che avrebbe dovuto spazzare via la giungla di contratti esistenti (collaborazioni a progetto, occasionali, a chiamata, intermittente, in partecipazione, in somministrazione, con vouchers …) potrebbe diventare paradossalmente solo un ulteriore tipologia, dai caratteri tra l’altro per niente definiti.
I bisogni dei lavoratori precari di nuova generazione sono tali da non potersi permettere un approccio ideologico al tema delle regole nel mondo del lavoro. Ma da quanto si legge nel testo del “job act”, il rischio di un buco nell’acqua, a distanza di 6 o 12 mesi, è forte. La responsabilità in tal caso sarebbe del Governo, certo, ma non solo. E’ anche compito delle parti sociali, a cominciare da partiti e sindacati, avanzare proposte e sostenerle da adeguate campagne di sensibilizzazione e mobilitazione, provando ad incidere sulla (lunga) discussione in Parlamento e recuperando un ruolo attivo e propositivo nel determinare le condizioni di lavoro in Italia.