Ha aperto questa mattina sabato 13 giugno ai primi visitatori, con biglietto acquistabile solo on line e ingressi purtroppo ancora limitati per le misure di prevenzione anti covid, la mostra “Gli etruschi e il MANN” presso il Museo Archeologico nazionale di Napoli, a cura di Paolo Giulierini e Valentino Nizzo, rispettivamente, direttori del MANN e del Museo nazionale etrusco di Villa Giulia.
Due sale “ben corpose”, circa 600 reperti esposti, di cui un terzo visibile al pubblico per la prima volta dopo una campagna di studio, documentazione e restauro. L’esposizione abbraccia un arco temporale di circa sei secoli, dal X al IV sec. a. C. e “definisce un percorso di indagine che, sulle orme degli Etruschi, cerca di ricostruire le fondamenta storiche di questa popolazione”. La prima sezione dell’itinerario, intitolata “Gli etruschi e la Campania” ha un taglio più archeologico e approfondisce la presenza di questa antica civiltà in Italia meridionale; la seconda, dal titolo “Gli Etruschi al Mann” valorizza invece i materiali etrusco-italici acquisiti sul mercato collezionistico dal Museo di Napoli. Ad arricchire la mostra sono reperti provenienti dal Museo nazionale etrusco di Villa Giulia, riferibili a insediamenti esterni alla Campania, tra cui sarcofagi, esempi di scrittura etrusca e pregiatissima ceramica.
IL VALORE DELLA MOSTRA – Lo studio degli etruschi nel corso degli anni è stato spesso oggetto di luoghi comuni e semplificazioni, frutto di pregiudizi e di scarsa voglia di indagine critica da parte del mondo accademico. Con questa mostra più volte rinviata, ora prolungata fino al 31 maggio 2021, la civiltà etrusca entra a far parte, con veste di ancor maggiore ufficialità, del patrimonio storico-culturale dei popoli della Campania, risultato di incontri e contaminazioni. “E’ una delle componenti essenziali delle civiltà che si sono susseguite in questa regione e che si comprende solo in relazione alla contestuale presenza di greci, osci, sanniti e altre comunità locali” – ha affermato il direttore Paolo Giulierini in occasione dell’inaugurazione. “Scavare negli sterminati depositi del Mann è sempre un privilegio unico – ha aggiunto Valentino Nizzo, direttore del Museo di Villa Giulia. “Farlo per andare a caccia di Etruschi lo ha reso ancora più avvincente, perché si è potuto delineare un rigoroso percorso storico-archeologico volto a ricostituire la trama di relazioni che caratterizzò la plurisecolare presenza degli Etruschi in Campania”.
Oggi gli studiosi convergono nell’individuare, accanto alla cosiddetta “Etruria propria” dell’Italia centrale, una presenza etrusca in gran parte della pianura padana a Nord, e nelle aree fluviali della Campania a Sud. E più che alimentare false legende e “misteri” sulle origini fantasiose di questo popolo, prevale l’impostazione più corretta di considerare gli etruschi come la manifestazione evoluta e sviluppata, nei costumi, nell’organizzazione politico-sociale, nei commerci, di quei popoli di comune matrice culturale che hanno popolato la penisola, organizzati in comunità, fin dall’età del Ferro. Basti pensare al ruolo della donna, autonoma ed emancipata al punto da ricoprire incarichi pubblici e mantenere il proprio cognome accanto a quello dello sposo; all’idea di spiritualità nel ricordo degli antenati e nella celebrazione della vita, anche dopo la morte; alla ricchezza prodotta, tale da permettersi fiorenti scambi commerciali con greci e fenici; al livello artistico espresso soprattutto nella pittura.
UN PEZZO DI CAMPI FLEGREI – Accanto ai reperti provenienti dagli insediamenti di Capua, Cales (poco più a Nord), Suessola (attuale Mondragone), Calatia (nei pressi di Maddaloni), ci sono anche “sorprendenti” ritrovamenti di Cuma (foto in basso). Si tratta soprattutto della tomba “n. 104 del fondo Artiaco”, che ha restituito un ricco corredo funerario appartenuto a un rappresentante di alto rango di quella comunità, definito in passato da molti studiosi “principe cosmopolita tirrenico”, composto tra l’altro di uno scudo villanoviano e di fibule, fermagli, affibiagli e oggetti di fattura etrusca. La tomba fu scoperta non proprio l’altro ieri, ma nel 1902 (!) e non è l’unica di quelle ritrovate a Cuma, anche più recentemente e a decine, riferibili a usanze “italiche”. Ma è significativa la scelta di inserirla, oggi, in un contesto espositivo a cavallo temporale tra le prime sepolture dalla cultura funeraria proto-villanoviana delle necropoli di Carinaro nei pressi di Aversa (XI e X sec. a.c.) e Gricignano d’Aversa (IX – VIII sec. a.c.) con la celebre tomba Bernardini da Palestrina nei pressi di Roma, “prestata” nell’esposizione dal Museo di Villa Giulia, (675-650 a.C.), considerata una delle sepolture più ricche e famose che il mondo antico ci abbia restituito, tanto da divenire un vero e proprio simbolo dell’età “orientalizzante”. Si definisce così quell’epoca di grandi rotte commerciali e degli scambi di beni di lusso su scala mediterranea, segno indiretto di società prospere. Ebbene, la tomba di Cuma può considerarsi, secondo chi ha curato questa mostra, un primo esempio di “orientalizzante antico”, precedente all’orientalizzante vero e proprio della tomba di Palestrina nel Lazio e a quello definito “orientalizzante recente” rappresentato dalla tomba di Cales, in “località il Migliaro”, datata tra il 625 e il 600 a.c. Un messaggio chiaro, un input, secondo cui quella rete di influenze e contatti tra etruschi e greci ha toccato anche l’insediamento di Cuma, con dinamiche e caratteristiche probabilmente ancora da approfondire e comunque in continuità con la presenza di comunità autoctone, accertata fin dal 900 a.c., precedente alla fondazione della colonia.
Ulteriori ritrovamenti di Cuma esposti al MANN consistono in unguentari e balsamari, esempi di “ceramica etrusco-corinzia” databile tra il 620 e il 580 a.c., oltre a un pendente e una collana rinvenuta nella “tomba n. 108 Stevens”, affiancate e paragonate a ritrovamenti di Padula.
Infine, analogie tra la città di Capua e quella di Cuma sono riscontrabili anche per quanto riguarda la decorazione dello spazio sacro, un’affinità rappresentata dal cosiddetto “letto campano”, originale sistema di copertura del Tempio, consistente in un ricco rivestimento in terracotte policrome elaborato tra le due città tra il VI e il V sec. a.c., che trova riscontri anche nella città di Pompei nella valle del Sarno, durante il suo periodo etrusco.
IL FUTURO – I tempi sono maturi per affrontare la storia antica con un approccio basato sull’archeologia, sulla ricerca e non (solo) sulle “fonti” o “tradizioni”? Un approccio capace di riconoscere processi più articolati, sfumati, dinamici, tra le popolazioni del passato che si influenzarono reciprocamente, contaminarono, o talvolta convissero pacificamente? Si spera. Intanto, la buona notizia, per appassionati e operatori turistico-culturali, è che parte dei reperti esposti alla mostra visitabile fino al maggio 2021, almeno quelli acquisiti dal MANN e riferibili alle località campane, dovrebbero trasferirsi, secondo quanto annunciato dal direttore Giulierini, in una sezione permanente che arricchirà la già vasta “proposta culturale” del Museo archeologico di Napoli. Gli etruschi – già visibili nei musei campani di Pontecagnano, Padula e Calatia – troveranno il loro posto anche a Napoli, insieme a romani, greci ed egizi.