FOTO A CURA DI GEMMA RUSSO
“Come era allora O’Valion, signor Procolo?”, chiedo.
“ Come è ora”, fa senza esitare, quasi vedendo il posto davanti ai propri occhi nell’attimo esatto in cui porgo la domanda, “Solo che oggi è venuto a galla. Ѐ mancata l’acqua sotto. Il mare è sceso. Vedete, signurì, quando era mal tempo il livello del mare si alzava così tanto che con la forza di un paio di braccia si riuscivano a trascinare le barche sulla banchina. Adesso come si fa!”.
Procolo Di Costanzo, classe 1930, pescatore puteolano, partendo da un luogo, ha in modo semplice tratteggiato il profilo di una terra che è ballerina senza poterci fare nulla. La natura ha voluto che i Campi Flegrei fossero così.
Su questa terra, in questo porticciolo, chiamato Darsena o anche “O’ Valion”, è nato. Il mare, davanti alla rocca tufacea, lo ha varcato sin da bambino. Ora, è in pensione. Dalla propria casa, la Darsena non si vede neanche in lontananza. Le proprie gambe non sono quelle di una volta. Tra lui e quel mare, ci passano le scale di un condominio senza ascensore del rione Toiano, quartiere di Pozzuoli, e 5 chilometri di strada asfaltata. Eppure, nonostante ciò, quelle acque continua ancora a varcarle.
La sua è la storia di un “semplice”. Raccontarla, non cambia quella di una piccola cittadina di mare come Pozzuoli, ma fa molto di più. Mette in quella terra un seme fatto di valori, quale onestà e lavoro, che provengono dal passato. Quel seme ne darà altri che a loro volta saranno messi nella stessa o in altre terre. L’importante è che non si perda mai memoria del seme originario.
Io quel mare a livello della banchina non l’ho mai visto. Eppure sono nata lì. Negli anni ’80, il livello di quel mare era già sceso. Il Rione Terra, densamente popolato nella giovinezza di Procolo, era vuoto. La popolazione, sottoposta ad evacuazione forzata il 2 marzo 1970, sarà sistemata a Toiano. Tra la fine del ’70 e l’inizio dell’80, con l’intensificarsi del fenomeno del bradisisma, la città di Pozzuoli è spopolata. Viene costruito il quartiere di Monteruscello.
Ѐ in questi anni che gradualmente, ma inesorabilmente, perde le proprie radici.
Ѐ la cultura della fabbrica a caratterizzare quel periodo. Con essa, sono cresciute le generazioni nate in quegli anni.
Palazzi picchettati, impalcature, finestre murate, nelle narici la puzza di muffa delle strade e dei piani terra dei negozi, enormi quartieri densamente abitati che gradualmente del centro perdono traccia.
L’identità puteolana è nel proprio mare. A custodirla, sono alcune storiche famiglie di pescatori, tra cui i Di Costanzo.
Ѐ la signora Vincenza Legittimo, originaria del Rione Terra, moglie di Procolo, ad accogliermi. Insieme a lei, la figlia Carmela.
La chiacchierata la facciamo in una torrida giornata estiva. La prima cosa che gli chiedo è se ha caldo. “No, non ne ho”, risponde, “Mi sono abituato al caldo durante il mio lavoro. Sapete, facevo il pescatore. Avevo 10 anni quando ho iniziato. Mia mamma era appena morta. Anche i miei figli hanno fatto i pescatori. Sono stato fortunato. Mia moglie mi ha dato 6 uomini e una donna. Nicola, Enzo e Nunzio erano quelli che si alzavano con me alla mattina per andare a pescare”.
Mi mostra le foto della barca. “Era lunga 11 metri e si chiamava Andromeda”, racconta, “Ho fatto il soldato a mare. Andromeda era il nome della nave caposquadriglia e allora mi venne in mente di chiamarla così. Prima di questa avevo avuto altre barche, ma erano tutte piccole. Ci misi quasi 30 anni per mettere da parte i soldi. E mica era semplice mettere insieme 10 milioni? La famiglia era numerosa. Non la feci fare per me, ma per i miei figli”.
I tempi erano però cambiati. Il mare non era più così redditizio, soprattutto se commisurato all’immane lavoro da fare. Di mezzo si erano messe leggi che recepivano regolamenti europei, incentivanti alla resa.
I figli di Procolo erano allora giovani divenuti a loro volta padri. Presero altre strade.
“Signurì, rimasi, a 72 anni, solo con la barca. Decisi di smettere”, fa risoluto, “Ma le barche di legno quando si mettono a terra si spaccano con il sole e dopo non si recuperano più. Allora…la volevano tutti quanti. Ma, io non volevo darla a nessuno. Quella barca mi ha fatto mettere mille lire da parte, il cibo sulla tavola, essere felice, perché ero riuscito a farmela fare da un maestro d’ascia”.
E allora? “A quel tempo, lo Stato italiano se si decideva di non fare più il pescatore pagava la barca per il suo valore effettivo”, spiega lucido, come se stesse riprendendo nel momento del racconto la stessa decisione di allora. “Ho preferito darla allo Stato. Me la dovevano tagliare davanti ai miei occhi, però. Così avvenne. L’ho seguita allo scasso delle barche che si trovava a Baia. Con le pale meccaniche, una botta a poppa e una a prua”, inghiotte un nodo amaro, “Quando dettero la botta alla prua, Andromeda non c’era più. Era il 2002. Ho pianto un intero giorno”.
Si emoziona e mi emoziono anch’io. Per smorzare, faccio fare una virata brusca al racconto. L’interrompo e gli chiedo di fare con me quelle scale strette strette, ascensore al Rione Terra. Ascolta il mio movimento immaginario, fermando le sue parole. Partiamo dalla Darsena. Sono la voce fuori campo. Cerco di vedere con i suoi occhi. Salgo con lui i gradini.
“Ecco!”, faccio, “siamo all’ultimo gradino. Siamo al Rione. Guardiamo intorno e cosa vediamo, signor Procolo?!”.
“Signurì”, fa con una bella risata, “e che volete vedere? Erano tutti poverelli”.
Blocca la mia fantasia, quella delle cose sparite ma che sono vissute. Procolo ha nella mente quel luogo per quello che è stato, mentre io per quello che non ho vissuto e conosciuto.
Mi guarda in viso e forse legge la mia delusione. Allora, aggiunge “però una cosa ve la devo dire, signurì! Ho abitato a casa di mia nonna. Era detta Zi’ Monaca. La casa la chiamavano a’casa de’ fascist’. Da quella casa sul Rione ogni volta che mi affacciavo vedevo il mare e Miseno”.
Mi mostra la foto della mamma. “Avevo solo 10 anni. Volevo stare con lei quando si è ammalata”, racconta, “Ma mio padre mi portò via con lui. Avevo anche due fratelli. Mia sorella è morta con mia mamma. A Pozzuoli c’era la fame e allora andammo a Civitavecchia. Facevamo i pescatori. Da Civitavecchia a Santa Marinella. Un po’ qua, un po’ là. Questo succede quando non hai una mamma. Io facevo quello che dicevano loro. Stavo sempre con mio padre. La seconda guerra mondiale, l’ho vissuta a Portoferraio, all’isola D’Elba. Avevo 15 anni. I tedeschi arrivarono all’isola D’Elba e io, mio padre e un suo amico tornammo a Pozzuoli, prima in barca e poi a piedi. Mio padre aveva perso le scarpe nel viaggio”.
Ride di gusto mentre racconta, come se rivivesse le peripezie del tempo. A 20 anni, torna definitivamente a Pozzuoli e incontra la moglie. Nel suo racconto, la figura del padre è forte. “Si chiamava Nicola”, fa, “ma lo chiamavano Cacola. Mica la gente ti chiamava per nome! Tu dicevi il soprannome e subito ti identificavano. Sapete che significa Cacola? Bell’uomo. Io? Ero il figlio di Cacola e i miei figli erano i nipoti di Cacola”.
Ѐ stato pescatore e, per alcuni versi, lo continua ad essere. Non ho dubbi. Nel corso della chiacchierata, descrive manovre particolari e, mentre lo fa, il corpo è fermo ma le mani simulano i movimenti. Io m’incanto a guardare quelle mani. S’accorge che ogni tanto mi perdo, ma penso che non sappia che lo faccio nei suoi movimenti.
“Signurì, non state capendo”, fa richiamandomi all’ordine, “ma voi siete donna che conoscenza potete avere del mare. Le donne mica sono adatte a queste cose!”.
Gli chiedo della solennità dell’Assunta e della devozione dei pescatori puteolani verso questa festa.
Diviene serio. Non ho mai visto un pescatore della mia terra divenire tanto serio a riguardo.
“Ho sempre rispettato a’Maronn”, dice, “ho sempre dato l’offerta per la festa. Ma vi ricordate , signurì, quando vi ho raccontato di quella licenza avuta a 21 anni? Non me la potevano dare quella licenza, ma fecero uno strappo. Ero in marina. Era sotto ferragosto e mio padre non stava bene. Me lo andai a prendere in un paesino nei pressi di Roma e lo portai a Pozzuoli. L’ho perso il 15 agosto, u’juorno da Maronn”.
Facciamo entrambi silenzio. “ Non dico che è stata lei”, continua, “ma, vedete, signurì, tutto ha un inizio, un durante e una fine”.
Da bravo pescatore da posta, sapeva imbastire le reti. L’aveva imparato dal padre. Anche allora, le reti si compravano già imbastite, ma quelle erano buone per “le mez’cazet!”. “No”, spiega, “ le compravo, le imbastivo io, quando in inverno ero a casa. Ho fatto sempre reti buone. Se quelle non servono, i pesci buoni come li prendi? Le facevo a seconda di dove e cosa dovevo pescare. Una volta imbastite, venivano tinte, si asciugavano e poi le portavamo in barca. I figli miei le hanno imparate a fare da me. Ho sempre tenuto la curiosità per i pesci. Tutte le mattine, andavo a pescare dicendomi che dovevo prendere pochi pesci, ma buoni”.
“Ascoltate”, gli dico cercando di prepararlo, “ vi faccio una domanda adesso, ma non vi dovete emozionare”.
Annuisce.
“Vi manca il mare?”.
Apre la bocca come a voler parlare, ma la voce non esce. Non c’è, non la ha. Ma i miei occhi hanno con i suoi che guardano in avanti una vera e propria conversazione, con tanto di botta e risposta.
I miei occhi s’abbassano dispiaciuti. Gliel’ho fatto venire io in mente il mare.
Sì, se ne era parlato, ma non in maniera diretta.
“Mi manca. Mi manca”, dice, “Ed è una mancanza che non si può spiegare”.
Resta nella sua posizione, ma gli occhi stanno andando. Sono al largo. Cerco di ancorare quegli occhi alla terra, riparlando dei figli e dei nipoti, smorzando a questi il viaggio doloroso fatto nel ricordo.
Mi segue e io mi sento meno in colpa. Ma, poi, mi fa scacco matto.
Mentre mi parla, si ferma un attimo e dice “Vedete, signurì, io andavo a pescare pure quando era mal tempo. Avete mai visto il mare quando in superficie diventa spumoso per il mal tempo? Quando è così, sotto è ricco di pesce. Tenevo la barca grande, lo potevo fare. Ѐ nella tempesta che si pesca di più, o’sapit?! Poi, io tenevo a’ curiosità. Conoscevo tutti i pesci del mare, come erano fatti, come si muovevano. E se non conoscevo questo come potevo fare a pescare?”. Si ferma e sorride di cuore. “Gli altri, signurì, erano mez’cazet”, ride e, con un meraviglioso dialetto puteolano, mi guarda e dice “Sapit che significa mez’cazet?!”.
Scoppiamo a ridere.
Li saluto. Ho nella pancia una confusione di emozioni.
Una cosa mi è, però, chiara. Non sarebbe stato meglio morire di mare invece che di industria?