Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) descrive qual è il fine della nostra classe dirigente: massimizzare i profitti a scapito di tutto e tutti. Spingere all’estremo il disequilibrio economico, sociale e naturale che trova il suo fondamento nell’accumulo irrefrenabile di risorse (materiali e immateriali) nelle mani di pochi. Tale attitudine, che si riverbera in ogni contesto e che si estrinseca, ad esempio, nell’immobilismo del nostro paese, risulta oggi ancora più incomprensibile alla luce del disastro ecologico planetario cui la nostra generazione sta assistendo.
Il Pnrr, per come è stato strutturato e suddiviso, rappresenta la logica conseguenza di un modo di agire improvvido, vorace e autodistruttivo, che trova nella commistione tra interessi politici, industriali ed economici la sua massima espressione e vede nei patrimoni immensi di pochi il suo unico obiettivo. La stessa ratio del piano, che beneficia in larga parte del Next Generation EU (programma europeo di aiuti straordinari da 750 miliardi euro, approvato per rispondere alla crisi economica provocata dalla pandemia) è stata di fatto sventrata e interpretata al fine di piegare la sua stessa ragion d’essere al dogma del profitto.
Scrive il presidente del Consiglio Mario Draghi nella premessa del documento: “i Piani devono rispondere alle conseguenze economiche e sociali della crisi pandemica attraverso strategie economiche che portino ad una ripresa rapida, solida e inclusiva e che migliorino la crescita potenziale. Devono pertanto contribuire a migliorare la produttività, la competitività e la stabilità macroeconomica, in linea con le priorità delineate nella Strategia annuale per la crescita sostenibile”.
Ineccepibile, si potrebbe, osservare. Se non fosse che l’obiettivo del NextGenEU, quindi implicitamente del Pnrr, non è sostenere la crescita economica e la produttività sul costo del lavoro tout court, ma rispondere alla crisi ambientale, sociale ed economica generata dalla pandemia. Crisi che ha acuito le profonde diseguaglianze già presenti in modo sistemico nel nostro paese (nel 2020 il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è salito al 9,4 per cento – pari a circa 6 milioni di persone -, mentre durante la pandemia 36 miliardari italiani hanno aumentato la loro ricchezza di ulteriori 45,7miliardi di euro). La situazione di degrado ed agonia dell’Italia è palese.
Continua Draghi: “La pandemia di Covid-19 ha colpito l’economia italiana più di altri Paesi europei. Nel 2020, il prodotto interno lordo si è ridotto dell’8,9 per cento, a fronte di un calo nell’Unione Europea del 6,2. […]. La crisi si è abbattuta su un Paese già fragile dal punto di vista economico, sociale ed ambientale. Tra il 1999 e il 2019, il Pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9 per cento. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna, l’aumento è stato rispettivamente del 30,2, del 32,4 e del 43,6 per cento”. Ancora una volta le categorie più colpite sono donne, giovani e soggetti fragili. Così come il Mezzogiorno rappresenta il grande bacino di sofferenza del Paese.
Dato l’ambito emergenziale in cui il piano è stato concepito, appare opportuno ribadire il profondo nesso tra l’attuale modello economico mondiale – in cui il nostro paese ha giocato e gioca un ruolo rilevante -, e la pandemia, ovvero l’origine fondante del piano stesso. Grazie alla dimensione transnazionale dei mercati, la domanda di beni e merci è cresciuta a dismisura. L’ultima barriera a cadere è stata quella spaziale. Grazie a trasporti sempre più economici ed al contempo altamente inquinanti, i ritmi di produzione hanno raggiunto in molte parti del mondo picchi straordinari. Ciò cui abbiamo assistito, in questo brevissimo periodo di tempo, è sintetizzabile nell’esponenziale accaparramento delle risorse naturali, nell’inquinamento cieco e furioso, nel totale disinteresse per le conseguenze di questo agire. Dall’agricoltura alla pastorizia, dalla pesca alla silvicultura passando per tutti i processi produttivi legati al Carbonio (come plastica e combustibili fossili) e allo sfruttamento intensivo di terre ed oceani. Nel corso degli ultimi quattrocento anni abbiamo sventrato, ad un ritmo vorticoso, il nostro stesso corpo, destabilizzando con il nostro agire quotidiano il complesso e fragile equilibrio che ha regolato il pianeta per miliardi di anni. Scaturendo al contempo fenomeni climatici e pandemici disastrosi e noti.
Eppure qual è la risposta a tale disastro? Il mantenimento delle categorie valoriali che hanno portato a tale situazione. Legittimamente, a questo punto, ci si potrebbe chiedere: ma il governo Draghi, che c’entra? Potevamo forse affidarci completamente al piano d’interventi del Pnrr per invertire questa rotta? Ovviamente no. Sarebbe ingiusto e ingeneroso gravare questo governo di un tale peso messianico, prima che politico. E allora, altrettanto legittimamente ci si potrebbe chiedere: qual è il problema? Qual è l’aspettativa mancata di questo documento?
La risposta, in prima battuta, la fornisce lo stesso premier che scrive: “L’Italia è particolarmente vulnerabile ai cambiamenti climatici e, in particolare, all’aumento delle ondate di calore e delle siccità. Le zone costiere, i delta e le pianure alluvionali rischiano di subire gli effetti legati all’incremento del livello del mare e delle precipitazioni intense. […] Il Pnrr è parte di una più ampia e ambiziosa strategia per l’ammodernamento del Paese”.
I DETTAGLI DEL PNRR, I LIMITI E LE CONTRADDIZIONI DELLA POLITICA DI TRANSIZIONE ECOLOGICA – Eppure, come spesso accade, le parole non trovano una puntuale traduzione nell’azione politica. Lo strumento di programmazione, approvato dal Parlamento su indicazione del governo, prevede investimenti per più di 191 miliardi di euro, suddivisi in sei macro aree: digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (40,7 miliardi); rivoluzione verde e transizione ecologica (59,3 miliardi); infrastrutture per una mobilità sostenibile (25,1 miliardi); Istruzione e ricerca (30,8 miliardi); Inclusione e coesione (19,8 miliardi); salute (15,6 miliardi). A queste risorse, per completezza, vanno aggiunti i sostegni provenienti dal Fondo complementare e dal React EU, che portano ad un totale che supera il 235 miliardi di euro suddiviso in: digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (50,7 miliardi); rivoluzione verde e transizione ecologica (69,9 miliardi); infrastrutture per una mobilità sostenibile (31,4 miliardi); Istruzione e ricerca (33,8 miliardi); Inclusione e coesione (29,6 miliardi); salute (20,2 miliardi).
A fare la parte del leone, almeno in apparenza, è la “rivoluzione verde e transizione ecologica” che sfiora una disponibilità totale di circa 70 miliardi di euro. Una cifra imponente che, tuttavia, appare più nominale che sostanziale. Nel dettaglio, la missione verde è strutturata a sua volta in quattro macro aree: agricoltura sostenibile ed economia circolare (5,2 miliardi), energia rinnovabile, idrogeno, rete e mobilità sostenibile (23,7); efficienza energetica e riqualificazione degli edifici (15,2), tutela del territorio e della risorsa idrica (15). La prima criticità riguarda l’economia circolare, poiché nel documento emerge come questa venga imperniata sostanzialmente sul potenziamento del ciclo dei rifiuti e non pone, ad esempio, obiettivi sulla riduzione dei rifiuti stessi, non prenda in considerazione altri segmenti in crescita, come la chimica verde (basata cioè sull’organico), e non si impegni a ridurre la produzione di materiale usa e getta (in particolare la plastica che, è dannosa per l’ecosistema sia all’atto della produzione che in quello dello smaltimento). Tale assenza di indicazioni potrebbe portare, secondo molte associazioni ambientaliste, alla realizzazione di nuovi inceneritori per far fronte ai nuovi bisogni, con i conseguenti e noti rischi sanitari per la popolazione.
Per quanto riguarda la seconda componente, quella più corposa, le criticità diventano ancora più grandi, visto che a beneficiare delle risorse in campo saranno principalmente i colossi energetici nazionali Eni e Snam che, avendo il proprio core business nella produzione energetica da fonti fossili, contribuiscono a rilasciare una quota estremamente rilevante di emissioni nocive nell’atmosfera così come alterano l’ecosistema terrestre e marino attraverso molte delle proprie attività (si pensi solo a trivellazioni, costruzione di condutture). La parola magica attorno cui tutto ruota è: idrogeno. Il problema è il colore. Ad oggi in tutto il mondo si producono circa 74milioni di tonnellate di idrogeno (per un valore che si aggira attorno ai 125 miliardi di euro), di cui il 96 per cento proviene direttamente da combustibili fossili (detto idrogeno grigio, perché viene prodotto attraverso l’utilizzo di metano, petrolio e carbone).
In Italia si vuole puntare sul cosiddetto idrogeno blu che si basa sullo stesso processo produttivo del grigio, con la differenza che le enormi quantità di anidride carbonica derivanti, verrebbero catturate e stoccata nei giacimenti esausti, detti Ccs (Carbon Capture Storage). Una tecnologia complessa, costosa, altamente impattante e soprattutto pericolosa, che trova la sua origine nella necessità da parte dei grandi gruppi petroliferi di riutilizzare in qualche modo i bacini di gas e petrolio esausti (e che proprio attraverso l’utilizzo della CO2 riuscirebbero a sfruttare ulteriormente le risorse fossili immagazzinate nel pianeta). Su questa tecnologia, è bene dirlo, sono stati investiti ingenti risorse con risultati molto deludenti e con annessi rischi sismici dovuti all’instabilità dei bacini derivanti dalla presenza liquida di CO2.
L’unica fonte veramente pulita e sostenibile è l’idrogeno verde, prodotto attraverso l’utilizzo di acqua ed energia elettrica. Purtroppo ad oggi l’idrogeno verde costituisce solo il 4% e il Pnrr non pone alcuna linea di demarcazione, rivoluzione o transizione per cambiare tale attitudine. Anzi. La produzione elettrica italiana cresce poco, soprattutto da fonti rinnovabili, mentre si continua a puntare sul gas a tutti i costi. Basti ricordare che in Sardegna, regione dalla straordinarie risorse rinnovabili, si porta avanti la metanizzazione dell’isola con progetti vecchi e desueti dal punto di vista tecnologico, economico e ambientale. Al contempo, solo per citare due casi, nei Paesi Bassi è vietato posare nuove tubature e in Germania, dal 2021, coloro che utilizzeranno il gas in casa dovranno pagare una tassa che servirà a finanziare la transizione verso l’elettricità verde. Insomma il mondo corre in una direzione e l’Italia cammina nell’altra.
“È stato sorprendente sentire il ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani dire che ‘non è conveniente investire nella mobilità elettrica fin quando non si raggiungerà il 72% di produzione di energie rinnovabili’ – afferma Angelo Bonelli, portavoce dei Verdi in un’intervista concessa ad Affari Italiani -, quando dal Piano si prevede di raggiungere al 2030 solo il 70%. Questo porta a dedurre che da qui al 2030 per il ministro Cingolani, il Governo italiano non investirà nella mobilità elettrica. Una dichiarazione in assoluta controtendenza rispetto a quelle che sono le politiche industriali del resto del mondo. È chiaro che c’è ancora una filosofia che sposa con forza gli idrocarburi. E non è un caso che si investono oltre 3 miliardi di euro nell’idrogeno, quello blu, prodotto dal gas, dando un ruolo fortissimo all’Eni nel nostro Paese”. A fare da contraltare sono i pochi investimenti destinati alle fonti rinnovabili cristallizzati ad un (in)sufficiente 4,2GW di potenza elettrica installata, meno cioè di quanto sarebbe necessario produrre in un anno secondo gli obiettivi climatici fissati dall’Europa.
E non è retorica ricordare che i vertici delle due società guadagnano cifre astronomiche (basti pensare che l’Ad di Eni guadagna circa 5.7milioni di euro l’anno e l’Ad di Snam circa 1.6, entrambi i dati sono riferiti al 2019 e intesi come lordi). Inutile sottolineare come l’unico strumento a disposizione per mantenere tale livello di profitto per il management e l’intero apparato è dato unicamente dalla massimizzazione dei profitti e quindi dallo sfruttamento delle fonti fossili che continueranno a garantire, seppur per un periodo limitato di tempo, introiti da capogiro.
Deludente anche il capitolo relativo all’agricoltura. Nel Pnrr, purtroppo, non emergono riferimenti chiari allo sviluppo dell’agricoltura ecologica e biologica, né si pongono obiettivo di riduzione del numero dei capi allevati (anche per quanto riguarda la pesca) e mancano altresì riferimenti espliciti al raggiungimento degli obiettivi delle Strategie UE Farm to Fork, il cosiddetto chilometro zero. Secondo le associazioni ambientaliste lo stanziamento destinato al biometano, rischia di essere inutile se non supportato da una coerente politica agricola finalizzata alla riduzione delle emissioni e dei capi allevati.
Altro nodo estremamente problematico riguarda il segmento dei trasporti che contribuiscono in modo significativo alle emissioni di sostanze inquinanti. I 240 chilometri di reti per il trasporto pubblico previsti dal Pnrr da distribuire su tutto il territorio nazionale, sarebbero in realtà appena sufficienti a sostenere le necessità di ammodernamento della rete di trasporto di una città come Roma. Così come l’acquisto di 5.500 autobus su un totale circolante di circa 43mila mezzi (pari a circa il 13%) risulterebbe un mero accenno d’intervento, visto anche che il parco mezzi italiano è tra i più vecchi e inquinati d’Europa. Stesso discorso riguarda la mobilità elettrica pulita (ovvero da fonti rinnovabili), dove sono stati previsti investimenti per soli 750milioni di euro, mentre in Germania e Francia sono stati investiti miliardi di euro. Il piano poi si caratterizza, secondo un’opinione molto diffusa, per riportare sotto varie diciture i medesimi interventi (come la mobilità sostenibile, che in realtà è poco sostenibile), così da confondere ulteriormente le acque già poco limpide.
Poco viene fatto anche sull’efficientamento delle reti idriche nazionali che, ad oggi, perdono circa 100mila litri d’acqua al secondo, pari al 41 per cento e stimati utili a sostenere una popolazione di 40 milioni di persone. Per tale emorragia, che si sviluppa su una rete di 25mila chilometri il governo ha destinato solo 900 milioni di euro. Peggio il dato che riguarda la depurazione delle acque reflue per le quali è prevista la spesa di 600 milioni di euro, a fronte della situazione gravissima in alcune zone del paese (l’Italia è stata condannata della Corte di Giustizia europea perché in alcune regioni non depura le acque reflue). Completamente dimenticato, poi, il tema dei siti inquinanti (tra i tanti spiccano Taranto, Milazzo, Brescia, Porto Torres) che non appaiono in alcun modo beneficiari dell’intervento. Stridono le parole del presidente Draghi secondo cui il 40 per cento dei fondi verrà destinato al raggiungimento degli obiettivi climatici, quando numeri alla mano tale cifra potrebbe essere raggiunta inglobando anche le tecnologie inquinanti e che non hanno nulla a che vedere con gli obiettivi climatici.
Emerge che le parole chiave del Pnrr sono digitalizzazione, riforme istituzionali, rivoluzione verde e transizione ecologica e che le prime due rappresentino di fatto il vero cuore dell’intervento. E, fermo restando, l’importanza dei primi due settori, ancora una volta l’ordine delle priorità risulta invertito. È come se, in un edificio avvolto dalle fiamme, ci si preoccupasse prima di mettere in salvo i gioielli, poi di scollegare gli elettrodomestici e infine di mettere in salvo se stessi e i propri cari. Tutte azioni comprensibili, che tuttavia denoterebbero un’eccezionale carenza di spirito di sopravvivenza.
Ed è proprio la carenza dello spirito di sopravvivenza che emerge. Non solo dal Pnrr, ma dal contesto culturale italiano, dove troppo spesso le battagli ambientaliste vengono accolte nella società come fanatismo ecologista, frutto di una visione estremista del mondo. Troppo spesso l’opinione pubblica pone l’accento sul presunto conflitto tra lavoro e tutela ambientale quando, in realtà, tale conflitto è apparente, funzionale a nascondere l’elemento di disturbo, l’anomalia che è diventata regola: il profitto. Nel momento in cui dall’equazione economica, sociale e ambientale il margine di guadagno viene ricalcolato al ribasso, soprattutto per gli stipendi da capogiro e persino mantenendo una sostanziale redditività, i conti iniziano a tornare. L’elemento di conflitto viene a mancare a favore dell’elemento di equilibrio (secondo la società di consulenza McKinsey entro il 2050 si creeranno circa 5milioni di posti di lavoro Green nel mondo, con un volume d’affari che si aggirerebbe attorno ai 10mila miliardi di dollari).
La classe dirigente italiana, che si caratterizza per essere retriva e poco lungimirante, ha deciso, per l’ennesima volta, di guardare altrove. Di provare a chiudersi nei gli hotel di lusso, nelle tenute da sogno o sulle imbarcazioni da nababbi. Peccato che il Covid-19, le micro plastiche nelle acque, gli incendi o le grandinate non guardino al reddito o al ceto, ma si abbattano su tutti. Con conseguenze, certamente, più pesanti sugli strati più fragili e deboli della società, ma nessuno è salvo. Per questo motivo dobbiamo chiedere fermamente il cambio di passo non solo alla politica, ma all’intera società. La casa è in fiamme. È ora di provare a reagire.
Approfondimento a cura di VERONICA CIRILLO