Lo scorso 24 aprile, Gabriele del Grande è stato finalmente liberato dalle autorità turche ed è rientrato in Italia dopo quattordici giorni di fermo. Fermato il 9 aprile in territorio turco al confine con la Siria, dove era intento a raccogliere materiale per il suo nuovo libro riguardo il conflitto siriano, “Un partigiano mi disse”. Durante il periodo di isolamento, Del Grande non è sottoposto a maltrattamenti fisici, ma subisce numerosi interrogatori riguardo il suo lavoro ed è detenuto senza che venga formalizzata alcuna accusa nei suoi confronti. “Ho subito una violenza istituzionale” dichiara infatti il giovane reporter una volta arrivato a Bologna, alludendo proprio alla violazione dei suoi diritti civili – violazione che il 19 aprile lo porta ad iniziare lo sciopero della fame come segno di protesta.
IL RUOLO DELL’OPINIONE PUBBLICA – Negli ultimi giorni di reclusione i contatti diplomatici con la Turchia si intensificano, ottenendo il rilascio di Del Grande. La notizia ha creato partecipazione e mobilitazione tra l’opinione pubblica, a maggior ragione data la coincidenza con la vigilia della Festa della Liberazione. Tuttavia, al sollievo e ai festeggiamenti è doveroso includere una riflessione che valica il confine della situazione contingente e che volge lo sguardo su una questione generale ben più ampia, come lo stesso giornalista sottolinea al momento del rimpatrio: “Il mio caso è risolto, ma non dimentichiamo gli altri giornalisti detenuti, anche e non solo in Turchia ed in condizioni peggiori della mia”.
TURCHIA, ALLARME LIBERTA’ – La libertà di informazione in Turchia è costantemente osteggiata in maniera sempre più autoritaria, come testimoniano i molteplici casi di giornalisti imprigionati, licenziati e minacciati. Secondo i dati contenuti nel rapporto dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, dal colpo di Stato dello scorso luglio – che ha determinato l’insorgere della “situazione d’emergenza” e delle conseguenti norme di sicurezza inasprite ed esacerbate – si stimano circa centosettantasette media chiusi, centocinquanta giornalisti imprigionati e duemilacinquecento licenziati, circa quattromila magistrati sospesi dalle loro funzioni e tremilaseicento obbligati a dimettersi, duemilacento istituzioni scolastiche e universitarie chiuse e circa centottantamila fondazioni ed associazioni sciolte. Tale rapporto – contestato dal presidente della delegazione turca dell’assemblea Kukucan – evidenzia la realtà di un Paese vittima di una grave ed annosa involuzione politica, destinata a perpetuare con la vittoria del sì al referendum costituzionale dello scorso 16 aprile, che vede il definitivo passaggio della Repubblica turca da parlamentare a presidenziale.
La riforma costituzionale accentra di fatto nelle mani del presidente Erdogan il potere legislativo, esecutivo e giudiziario: la figura del premier scompare, concentrando il potere esecutivo nella figura del Capo di Stato, eletto dai cittadini come sancito dal referendum costituzionale del 2010, che potrà emettere decreti legislativi, esercitare la funzione di nominare e destituire funzionari governativi, vicepresidenti, ministri e quattro membri all’interno del Consiglio superiore della magistratura; viene inoltre superato il giuramento di imparzialità, data la possibilità introdotta per il Presidente della Repubblica di mantenere il legame con il partito di provenienza. In caso di stato di emergenza il Presidente può proporre la sospensione o la limitazione di diritti civili e libertà fondamentali. Il ruolo del Parlamento viene limitato ed è eliminata la mozione di sfiducia verso il governo e il presidente, mentre spetta alla Corte Costituzionale pronunciarsi su eventuali dubbi di costituzionalità. È importante ricordare, inoltre, che con l’approvazione della riforma costituzionale Erdogan potrà restare in carica potenzialmente fino al 2029, in quanto la sua entrata in vigore nel 2019 azzererebbe il precedente mandato del presidente.
REPRESSIONE VERSO I CURDI, AMBIGUITA’ CON L’ISIS – Alla luce delle modifiche introdotte dalla riforma, è evidente che la Turchia vede legittimato e rinforzato un regime autoritario preesistente e chiaramente individuabile già dalla violenta opposizione all’autodeterminazione del popolo curdo – che è alla base della guerriglia contro i miliziani del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), dalle perpetuate violazioni delle libertà civili dei cittadini, dalla dura repressione delle manifestazioni di protesta in Piazza Taksim nel 2013. Questa in particolare suscitò l’indignazione dell’opinione pubblica occidentale e del Parlamento Europeo, contribuendo fortemente all’allontanamento dall’Unione Europea, che rappresentava invece agli inizi degli anni 2000 un’occasione da cogliere per il governo turco: al momento della sua fondazione ad opera proprio di Erdogan, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) appariva come filo-occidentale e si faceva promotore di un’economia liberale al fine di ottenere l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Una prospettiva, questa, ovviamente destinata a sfumare con l’emergere delle contraddizioni di una forza politica con tendenze sempre più conservatrici ed autoritarie. Ad un quadro politico già di per sé fortemente negativo si aggiunge l’ambiguità del ruolo svolto nell’ambito del conflitto siriano, in cui la Turchia è alleata degli Stati Uniti contro il regime di Assad ma allo stesso tempo osteggia violentemente l’YPG (Unità di Protezione Popolare), in quanto ala militare del PYD (Partito dell’Unione Democratica), principale partito curdo siriano. La Turchia è stata inoltre accusata di favoreggiamento nei confronti dell’ISIS, più precisamente di aver favorito lo Stato Islamico facilitando il passaggio di numerosi foreign fighters verso la Siria e l’Iraq e di aver commerciato petrolio con Raqqa e Mosul, roccaforti del Califfato. Ankara condivide infatti con l’organizzazione terroristica ben due nemici: Assad e i curdi. Il doppio gioco, tuttavia, ha vacillato quando il governo turco è stato pressato da Stati Uniti, Paesi europei e Russia ad intervenire sul suoi confine contro lo Stato Islamico – misura che ha determinato infatti l’aggiunta della Turchia all’elenco dei Paesi vittime degli attentati terroristici dell’ISIS.
L’EUROPA RESTA A GUARDARE? Sulla base degli sviluppi che hanno visto la Turchia passare nell’ultimo decennio da Paese candidato a membro dell’UE a Paese fautore di politiche coercitive e repressive, si può asserire che Erdogan abbia giocato su due tavoli nei riguardi dell’Occidente quasi come lo ha fatto in Medio Oriente. Intanto, un territorio che anni fa sembrava poter rappresentare una sintesi tra due mondi da sempre in antitesi si rivela un luogo di oppressione crescente, in cui giornalisti turchi e stranieri vengono incarcerati senza accuse di reato, i cittadini vedono violati i propri diritti civili, il presidente della Repubblica ha assunto i connotati di un sultano, le minoranze etniche vengono osteggiate. Tutto ciò alle porte di un’Europa sempre più fragile, che si trova a dover fronteggiare la crisi economica e la diffusione di nazionalismi che minacciano la solidità di un’Unione Europea bisognosa di un profondo rinnovamento che la renda effettiva garante di giustizia sociale e di integrazione culturale. Passando in rassegna l’attuale assetto internazionale, risulta evidente la necessità di lottare ancora in difesa della dignità umana contro l’oppressione, l’intolleranza e le diseguaglianze.