Se dovessimo riassumere il 2020 in una frase, potremmo usare un imperativo categorico a cui tutti, almeno in parte o per qualche tempo, abbiamo dovuto obbedire: “restate a casa”. Durante l’emergenza sanitaria dovuta al Coronavirus le nostre abitazioni sono diventate, dal punto di vista sanitario, il luogo più sicuro al mondo. Eppure, per molte donne “casa” non è un luogo sicuro, perché le mura domestiche sono lo scenario di una pandemia che infetta le loro vite da molto prima del Covid: la violenza di genere. Per le vittime di violenza il lockdown ha significato trascorrere più tempo in compagnia del proprio carnefice; nella maggior parte dei casi infatti la violenza contro le donne è perpetrata da partner, fratelli e padri, cioè da uomini che fanno parte del loro stesso nucleo familiare.
I NUMERI PARLANO CHIARO – La quarantena forzata non solo ha portato a un aumento di molestie e violenze da parte di uomini nei confronti di donne nella sfera domestica, ma ha anche reso più difficile chiedere aiuto. Nonostante ciò, si è registrato un aumento delle chiamate al 1522, numero di pubblica utilità contro la violenza sulle donne e lo stalking, nel periodo compreso tra marzo e ottobre 2020. Il servizio del 1522 è promosso e gestito dal Dipartimento per le Pari Opportunità (DPO) presso la Presidenza del Consiglio, è gratuito e sempre attivo, è possibile chiamare oppure chattare con operatrici specializzate, pronte a dare consigli o a prestare soccorso. In occasione del 25 novembre, Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, l’Istat ha pubblicato l’analisi di dati contenuti nel dataset del 1522. Il report ci permette di osservare l’evoluzione del fenomeno nel corso della pandemia. Secondo i dati resi noti dall’Istat, il numero delle chiamate valide sia telefoniche sia via chat nel periodo compreso tra marzo e ottobre 2020 è aumentato vertiginosamente rispetto allo stesso periodo nel 2019, passando da 13.424 a 23.071. C’è stato un notevole incremento delle richieste di aiuto via chat, che da 829 nel 2019 sono passate a 3.347. Tra i motivi per cui le donne chiamano il 1522, dal 2019 al 2020 sono raddoppiate le chiamate per la “richiesta di aiuto da parte delle vittime di violenza”, che da 4.329 sono passate a 8.608, e le “segnalazioni per casi di violenza” che insieme rappresentano il 45,8% delle chiamate valide. Nel report, si specifica che tale aumento delle richieste è sì dovuto alla pandemia, ma anche alle numerose campagne contro la violenza di genere diffuse attraverso la TV e i social.
Durante il periodo del lockdown (1° marzo – 15 aprile 2020) le chiamate sono state effettuate maggiormente durante la notte o alle prime luci dell’alba, mentre di solito le donne vittime di violenza chiamano nella fascia oraria tra le 9 e le 20, quando i carnefici sono a lavoro. Purtroppo, solo il 12,2% delle vittime di violenza domestica denuncia dopo aver chiesto aiuto. Altro dato preoccupante riguarda i femminicidi: nel 2020 è stata uccisa una donna ogni 3 giorni e i femminicidi familiari registrano il valore più alto degli ultimi 20 anni. Ci teniamo a ricordare che con il termine femminicidio si indica l’uccisione di una donna per il solo fatto di essere donna, ci riferiamo quindi a uccisioni di donne da parte di partner e familiari che compiono il delitto per affermare il loro potere sulle vittime. Per intenderci, nel caso di una donna uccisa durante una rapina da un rapinatore, per esempio, non si parla di femminicidio, perché in quel caso la donna è uccisa in quanto ostaggio, non in base al suo genere. Nel caso in cui un marito uccida la sua compagna perché, secondo lui, non è stata una brava moglie parliamo di femminicidio, in quanto l’uccisione avviene perché secondo l’uomo la donna non si è conformata al ruolo di genere che lui le aveva attribuito. Il femminicidio è dunque la massima forma di violenza di genere.
LA REALTA’ DEI CAMPI FLEGREI – A tal proposito, è interessante confrontare i dati nazionali con quelli di una realtà locale, ossia lo sportello antiviolenza Spazio Donna che opera sul territorio dei Campi Flegrei, nei comuni di Pozzuoli, Bacoli e Monte di Procida. Il centro è attivo dal 2016 e durante il periodo del lockdown ha continuato le sue attività di supporto alle donne vittime di violenza. Attualmente le donne accolte e prese in carico dal centro antiviolenza sono 220. Grazie ai dati forniti dallo sportello Spazio Donna, sappiamo che nei mesi di reclusione le chiamate sono diminuite a causa della presenza in casa del carnefice. Subito dopo la fine della quarantena però, a partire da maggio, le telefonate al centro sono esplose, aumentando in modo consistente. I profili delle donne che si rivolgono allo sportello sono molto eterogenei, l’età delle vittime spazia dai 18 ai 70 anni; il livello di istruzione anche è vario, ma la maggioranza (il 70%) ha una scolarità medio-alta. Infine, il tasso di disoccupazione è piuttosto alto, 2 donne su 5 hanno un’occupazione precaria. Questi trend sono perfettamente in linea con quelli rilevati dallo studio dell’Istat. Occorre poi ricordare che spesso anche i figli assistono o subiscono atti di violenza da parte dei padri.
SUPPORTO LEGALE E CAMBIAMENTO CULTURALE – Questo bilancio di fine anno fa emergere l’esigenza di eliminare un fenomeno ben radicato nelle nostre società. Gli strumenti legali sono sicuramente un modo efficace per contrastare la violenza di genere; nel 2019 è stato approvato il Codice Rosso, una legge recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”. Le modifiche al codice penale però da sole non bastano. Ciò di cui abbiamo davvero bisogno è un cambiamento di prospettiva, una destrutturazione di atteggiamenti e credenze sociali e culturali che intossicano quotidianamente le relazioni tra i generi. Ma come riuscirci? Potremmo partire da una importantissima consapevolezza: la violenza di genere assume una molteplicità di forme. I due tipi di violenza più diffusi sono, in base ai racconti delle vittime, quella fisica e quella psicologica. Ma ci sono altri tipi di violenza altrettanto gravi che non dobbiamo sottovalutare, come ad esempio la violenza economica. Molte donne non denunciano e non lasciano il partner violento perché non sono economicamente indipendenti. Altre forme di violenza sono: la violenza sessuale, le molestie per strada e la violenza online.
Il secondo passo da fare per attuare un cambiamento strutturale a livello culturale è credere alle vittime. Tante sono le donne che non denunciano per paura di non essere credute, o peggio, per paura che chi le ascolta, dai familiari, agli amici, alle autorità, faccia ricadere su di loro la colpa degli abusi subiti. In questo caso parliamo di victim blaming, che in italiano possiamo tradurre con l’espressione “colpevolizzazione della vittima”. Smettere di far ricadere la colpa sulla vittima significa smettere di chiederle come era vestita quando è stata molestata, smettere di non credere che un marito possa stuprare sua moglie, smettere di giustificare la violenza dell’uomo con la scusa del raptus di gelosia. Dobbiamo ripartire dall’assunto che niente giustifica una violenza e che romanticizzare un femminicidio è uccidere la donna una seconda volta.
IL RUOLO DEI MASS MEDIA – Fondamentale in questa decostruzione della violenza è la narrazione dei media. C’è bisogno di un cambiamento nel modo in cui i giornali descrivono gli episodi di violenza domestica, stupro, molestie e femminicidi. È proprio attraverso i mass media che troppo spesso si cerca di attenuare la colpevolezza dell’uomo descrivendolo come un amorevole padre di famiglia, una brava persona, o come un amante consumato dalla passione. Questo modo di raccontare la violenza di genere è altamente nocivo perché contribuisce a deresponsabilizzare i carnefici e a minimizzare il problema.
Altro step verso l’estirpazione della violenza di genere consiste nell’ andare alla radice del problema, e cioè smontare l’immaginario della mascolinità tossica, che, detto in parole semplici, vuol dire ripensare al modo di concepire “l’essere uomo”. Ancora nel 2020 è presente lo stereotipo del “vero uomo” identificato come un essere aggressivo, rabbioso, che non si occupa delle faccende domestiche e della cura dei figli, che non piange, che non si mostra mai debole, ma spavaldo e forte, dove per forte ci si riferisce quasi esclusivamente alla forza fisica. Un uomo che alza la voce, che dà ordini, che impone la sua autorità. Queste credenze piantano negli uomini il seme della violenza sin dall’infanzia, un seme che cresce alimentato dai falsi ideali che ci nutrono ogni giorno. Un passo decisivo è comprendere che questa idea di essere uomo è sbagliata e tossica, perché contribuisce a creare un asse di potere che vede ai due poli gli uomini come oppressori e le donne come oppresse.
Per il 2021, oltre alla fine della pandemia causata dal Covid19, ci auspichiamo una riflessione collettiva, seguita da un processo di rieducazione sociale che possa avvicinarci a un grande traguardo: che “restare a casa” non sia più una minaccia per nessuna donna.